L’avvento del XXI secolo, con la fine della Corte Rehnquist e l’inizio dell’attività di una nuova Corte Suprema hanno offerto l’opportunità irripetibile di riconsiderare il ruolo del Bill of Rights nell’ordinamento costituzionale statunitense. Il pensiero giuridico americano ha subito una profonda evoluzione negli anni e per molto tempo il Bill of Rights è stato relegato ai margini del dibattito accademico ed istituzionale rispecchiando, forse, quelle che furono le intenzioni originarie dei Padri Fondatori convinti, sino al 1791, dell’inutilità di corredare la Costituzione di una Carta dei diritti che avrebbe finito per rappresentare un freno superfluo ad un governo federale di per sé dotato di limitati poteri. Perciò, coerentemente con il pensiero dei costituenti, nel 1833 la Corte Suprema in occasione della sentenza sul caso Barron v. Baltimore dichiarò che il Bill of Rights dovesse applicarsi al solo governo federale e che ciascuno Stato incontrava un limite esclusivamente nella propria Carta dei diritti statale. L’orientamento della Corte non incontrò significative variazioni sino agli ultimi anni del XIX secolo quando, nel caso del 1897 Chicago, Burligton and Quincy Railroad Company v. Chicago, affermò che il principio di giusta compensazione previsto dal V emendamento era da intendersi collegato al principio del giusto processo e perciò applicabile agli Stati attraverso il XIV emendamento. Successivamente, nel corso del XX secolo i giudici cominciarono gradualmente ad estendere agli Stati altre disposizioni del Bill of Rights. Nella storia costituzionale americana il Bill of Rights ha svolto a lungo un ruolo secondario nel modellare le libertà individuali. Lo conferma il fatto che alcuni dei diritti di cui oggi godono e vanno fieri i cittadini americani, come il diritto alla privacy, non siano affatto menzionati nel Bill of Rights. Ciò trova legittimazione nel fatto che la maggior parte dei diritti è stata storicamente determinata in atti legislativi e in convenzioni popolari. Nel momento in cui il Bill of Rights ha cominciato a trovare applicazione presso gli Stati, la Corte Suprema è assurta a organo principe per la determinazione del contenuto sostanziale dei diritti in esso affermati. Al momento attuale l’interpretazione del Bill of Rights continua ad alimentare un vivace dibattito. Diversi e cruciali sono stati i temi che hanno segnato l’intensa attività giurisprudenziale della Corte Suprema presieduta da William H. Rehnquist. Dal federalismo alle garanzie processuali nei confronti di coloro accusati di aver commesso reati, dalle garanzie costituzionali riguardanti il diritto di proprietà alla libertà religiosa e al controllo del porto d’armi, quest’ultimo oggetto della presente trattazione.
Il II Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, rubricato “Right to Bear Arms”, recita: “A well-regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed”. Quello sancito dal Secondo emendamento è un diritto insolito, particolarmente controverso ed eticamente e giuridicamente complesso, dai risvolti costituzionali in evoluzione e dalle ripercussioni politiche inaspettate. Esso si presta ad una duplice interpretazione, se da una parte è possibile vedere in esso una norma costituzionale formale, le cui origini sono molto probabilmente da rintracciarsi nel lontano passato e la cui adozione è fondata su motivazioni non più valide ai giorni nostri, dall’altra parte, occorre affrontare la sua applicazione nella contemporaneità che indurrebbe a collocare tale norma nell’ambito della costituzione materiale. È opportuno ricordare che lo spirito con cui i Padri Fondatori avevano concepito la lettera del secondo emendamento era che il diritto a portare le armi fosse attribuito al cittadino non nell’interesse privato, ma nell’interesse pubblico. […]