Il mio intervento si concentrerà su quattro aspetti in cui si realizza, a mio avviso, la continuità, nella magistratura, tra regime fascista ed età repubblicana. O meglio, come sosteneva Claudio Pavone (cui questo saggio è dedicato), la continuità “attraverso” il fascismo[1].
La tesi è che esista una persistenza e persino una vischiosità di stilemi, prassi, comportamenti e, più in alto, di modelli normativi e amministrativi che si perpetua pressoché inalterata lungo tutta la storia istituzionale italiana.
Il primo aspetto è quello dell’epurazione: la tesi, ormai fatta propria dalla storiografia, è quella di una mancata epurazione, ma forse sarebbe più corretto affermare che fu tentata un’eliminazione più radicale dal corpo dello Stato di coloro che si erano compromessi maggiormente con il regime, ma che questo tentativo fallì per molteplici ragioni. Come dimostrò Pietro Saraceno, all’inizio degli anni Novanta, vi fu infatti “un numero non del tutto trascurabile di magistrati, almeno nei gradi più alti della gerarchia giudiziaria” sottoposto ai procedimenti di epurazione.
Il secondo aspetto attiene alla continuità dell’apparato giudiziario in materia di carriera, promozioni e modalità di scelta dei responsabili degli uffici.
Il terzo aspetto riguarda la continuità nella giurisprudenza e nel mondo giudiziario in riferimento alla vita stessa dei tribunali e delle corti durante gli anni della transizione.
Il quarto aspetto riguarda il ruolo dell’organo supremo della giurisdizione, la Corte di cassazione, che vide senza dubbio accrescere in quegli anni il proprio peso specifico. Infine, come conclusione si accennerà al cambiamento imposto dalla Costituzione e alla sua lenta attuazione.
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Sommario: 1. Premessa. – 2. L’epurazione. – 3. La continuità nel corpo giudiziario. – 4. La continuità nella giurisprudenza e nel mondo giudiziario. – 5. I vertici della Corte di cassazione. – 6. Conclusioni