C’è qualcosa di autobiografico e qualcosa di storiografico in questo scritto, che sarà articolato in tre parti: la prima dedicata ai contesti e ai “compagni di viaggio”, la seconda agli scritti principali, la terza a un giudizio complessivo sulla storiografia sul fascismo.
Ho iniziato a interessarmi alla storia del fascismo nel 1953 – il mio oggetto di ricerca fu la Carta del lavoro –, quindi a soli dieci anni di distanza dalla caduta del regime. Quell’interesse nasceva in un ambiente particolare, a Pisa, dove ero studente, al secondo anno di giurisprudenza. Ero allievo del Collegio giuridico della Scuola Normale Superiore, dove vigeva l’obbligo annuale di sostenere un “colloquio”, una specie di piccola tesi. Scrissi un elaborato, che mi prese sei o sette mesi di lavoro, sulla Carta del lavoro, e trovai Massimo Severo Giannini, un professore di Diritto amministrativo che accettò di farmi da relatore – una cosa a quei tempi molto singolare. In quegli anni si dibatteva molto sul rapporto tra Stato ed economia e il tema di fondo era quello della pianificazione. Su questo argomento imperava una vera e propria mitologia, soprattutto nella sinistra. Eravamo a tre anni dalla Cassa del Mezzogiorno, tre dalla riforma agraria (legge stralcio), nel pieno del dibattito su programmazione e pianificazione. Il termine pianificazione evocava l’Unione sovietica, però aveva alle spalle anche il New Deal di Roosevelt. […]