Nel breve tempo a mia disposizione non affronterò nessuno dei pur rilevantissimi temi sostanziali posti all’attenzione dei lettori dalla Sent. n. 1/2014 della Corte costituzionale (i premi di maggioranza, le liste bloccate, gli effetti sulle Camere elette) e mi concentrerò, piuttosto, su tre profili a margine della questione dell’ammissibilità, ma non per questo – io credo – marginali. Un illustre Presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Branca, in un articolo fulminante di oltre quarant’anni fa (Quis adnotabit adnotatores?, in Scritti in onore di Gaspare Ambrosini, Milano, 1970, I, 221 ss.), ammoniva già allora i commentatori della giurisprudenza costituzionale – e, in ispecie, i più giovani tra loro – a rifuggire da una mera e didascalica ricerca di “errori, contraddizioni, leggerezze delle pronunce giurisdizionali” (ivi, 223), giacché “chi guarda alle minuzie finisce per non cogliere né i ’punti decisivi’ né il cuore dei problemi” (ivi, 225).
Ciò è giusto, così com’è giusto allargare lo sguardo, proprio in ragione del carattere “storico” della pronuncia qui trattata, alla dimensione del contesto in cui essa è maturata, a partire dalla conclamata incapacità del circuito politico-partitico-parlamentare di (auto)riformarsi e dai conseguenti moniti contenuti nelle Sentt. n. 15/2008, n. 16/2008 e n. 13/2012; nonché da quello, non meno istituzionale, pronunciato dal Presidente Franco Gallo in occasione della riunione straordinaria con la stampa del 12 aprile scorso, allorquando, a proposito delle leggi elettorali novellate nel 2005, ha ex professo “sollecit[ato] il legislatore a modificare una normativa che [la Corte costituzionale] ritiene in contrasto con la Costituzione”. Tuttavia, proprio quel carattere di grande décision della Sent. n. 1/2014, e dunque – è dato ritenere – la cura e l’attenzione che non possono non aver contrassegnato la confezione del testo anche nella parte relativa all’ammissibilità della quaestio, inducono a formulare alcune brevi considerazioni “a prima lettura” in ordine ora al ruolo per molti versi ambiguo svolto dal Presidente del Consiglio dei ministri in quella complessiva affaire giudiziaria, ora alla selezione talora eccentrica effettuata dalla Corte costituzionale sui propri precedenti giurisprudenziali, ora, infine, ad una grammatica del discorso segnata da una non sempre convincente concatenazione argomentativa. […]
Chi avesse letto in vita propria la sola pronuncia qui considerata penserebbe, per avventura, che nei giudizi innanzi alla Corte costituzionale, scaturiti da questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, i ricorrenti del giudizio principale intervengono al piano nobile del Palazzo della Consulta, per così dire, in beata solitudine. In questa circostanza, infatti, né il Presidente del Consiglio dei ministri interviene in giudizio, né di ciò si fa alcuna menzione nella motivazione, a differenza di altre recenti decisioni (ad esempio, da ultimo, nelle Sentt. n. 203/2013, n. 276/2013 e n. 281/2013). Sembra proprio che, in tale occasione, tanto l’Avvocatura generale dello stato quanto lo stesso giudice costituzionale abbiano fatto propria una delle massime più note ed ermetiche di Ludwig Wittgenstein: quella secondo cui “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” (Tractatus logico-philosophicus, [1921], trad. it. in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, 2009, 109). […]
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Di seguito si riporta il sommario del saggio: 1. Premessa 2. Il ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri 3. La selezione dei precedenti 4. La grammatica del discorso 5. Conclusione