Il testo di Federico Ghera, Regioni e diritto del lavoro, opera un quadro ricognitivo in ordine alla materia del diritto del lavoro così come rinvenibile, a fronte dei diversi limiti emersi in via progressiva, all’interno dell’art. 117 Cost, offrendo una descrizione del tortuoso percorso evolutivo compiuto dalla giurisprudenza costituzionale e parallelamente dalla dottrina prima e dopo la riforma del Titolo V.
Come è noto la Legge Costituzionale n. 3 del 2001 ha profondamente inciso sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni: mentre nell’elenco delle materie di competenza esclusiva della legge statale, l’unica voce attinente agli oggetti normalmente ricompresi nel diritto del lavoro è quella della previdenza sociale, nelle materie di competenza concorrente figurano invece la previdenza complementare ed integrativa, la tutela e la sicurezza del lavoro, così come, nell’ambito residuale, l’istruzione e la formazione professionale.
In prima battuta, fa notare l’Autore, l’intero diritto del lavoro – fatta eccezione per gli aspetti attinenti la previdenza sociale – sembrerebbero ricadere nel campo della legislazione concorrente, almeno per ciò che riguarda le Regioni ordinarie: da più parti una simile lettura è stata percepita con particolare preoccupazione, lasciando spazio piuttosto ad una interpretazione fortemente riduttiva dell’oggetto tutela e sicurezza del lavoro, facente leva sulla previsione, presente tra le materie di competenza esclusiva della legge statale, della voce ordinamento civile (art. 117, comma 2, lett l) Cost.), in grado di restringere fortemente la portata delle competenze regionali per ciò che riguarda la facoltà di adottare norme di diritto privato.
In risposta ad una simile e limitativa interpretazione, l’Autore fa notare come parte della dottrina abbia invece tentato una lettura meno riduttiva della materia, partendo dal presupposto che la legislazione regionale sarebbe sì potuta intervenire sul versante della disciplina dei rapporti di lavoro, seppur senza toccare quegli aspetti fondamentali enucleati dalla legge statale in virtù della più ampia competenza in materia di ordinamento civile. Inoltre, accanto a questo filone interpretativo, Ghera dà conto di un terzo orientamento, incline cioè a ravvisare la possibilità di un intervento regionale in materia di lavoro, anche sotto il profilo privatistico, che, agganciandosi alla lett m) dell’art. 117 Cost., sia di fatto subordinato alla necessità di incrementare, muovendosi quindi esclusivamente verso l’alto, i livelli di tutela dei diritti dei lavoratori garantiti dalla legislazione statale.
Senza dubbio, come l’Autore non esita a sottolineare nel primo capitolo – intitolato “I Problemi aperti dalla riforma del Titolo V” – la portata della competenza legislativa riconosciuta allo Stato in materia di ordinamento civile riveste una importanza centrale per la comprensione dell’intero discorso, in quanto una sua stringente interpretazione precluderebbe alle Regioni, come di fatto è accaduto, la possibilità di disciplinare l’aspetto più significativo dell’ambito lavoristico: il rapporto di lavoro.
Per tale ordine di ragioni Ghera presenta un quadro ricostruttivo della dottrina e della giurisprudenza costituzionale relativa al c.d limite del diritto privato antecedente alla riforma del Titolo V, per poi atterrare sulla norma dell’art. 117 Cost. così come novellata nel 2001, partendo dal presupposto che una buona parte della dottrina ha ravvisato una prospettiva continuista tra il limite pocanzi citato e l’attuale voce ordinamento civile collocata tra le materie di competenza esclusiva dello Stato.
Il primo intervento della Corte Costituzionale sul punto – e si entra qui nella seconda parte del testo, precisamente nel capitolo dal titolo “Ordinamento Civile ed autonomia regionale” – si verificò con la sentenza n. 7 del 1956 in cui venne affermato il principio secondo il quale le Regioni non avrebbero potuto disciplinare i rapporti privati, anche nelle materie di loro competenza, nonostante la regola sembrasse suscettibile di eccezioni in presenza di particolari fattori.
Successivamente all’entrata in funzione delle Regioni ordinarie e fino alla fine degli anni ’80, la Corte Costituzionale mutò sensibilmente il proprio orientamento, dichiarandosi non più disposta, come emerso nella sentenza n. 154/1972, e salvo casi straordinari, ad ammettere eccezioni alla regola della riserva allo Stato sul diritto privato. […]