Lo studio della libertà di ingresso e soggiorno dello straniero come momento di riflessione sulla vicenda evolutiva della forma di Stato: questa, in estrema sintesi, appare una delle cifre di lettura del prezioso volume di Mario Savino che mediante la giustapposizione della disciplina dei flussi migratori alle trasformazioni di alcuni degli istituti giuridici che caratterizzano lo Stato nazione, mostra quale sfida concettuale di estrema delicatezza rappresenti per il giurista il tema dell’immigrazione. La nitidezza con cui tale profilo risalta, d’altronde, sembra riflettere un aspetto che attribuisce a questo argomento così grande interesse, rilevandosi esso un’occasione di grande importanza per l’attivazione dei processi di introspezione d’identità, anche costituzionale, nelle comunità di destinazione degli stranieri. In questa prospettiva, un vasto apparato concettuale del diritto pubblico è sotto esame: l’ordine pubblico, su tutti, ma anche il principio di legalità, il principio di proporzionalità, il giusto procedimento, etc. sono oggetto di un attento scrutinio. Il problema di Savino, infatti, è la necessità di assicurare la tenuta degli istituti di garanzia dell’individuo presenti nella Costituzione quando il destinatario dell’esercizio del potere sia lo straniero, anche al fine di offrire uno sbocco alla tradizionale divisione tra alcuni filoni del liberalismo (cfr., ad es., i lavori di Jospeh Carens) sostenitori della configurazione della libertà di ingresso simmetrica alla libertà di emigrazione, dai comunitaristi (cfr. M. Walzer, Sfere di giustizia, Laterza) che insistono sulla necessità di comunità chiuse come esigenza necessaria alla preservazione dell’omogeneità culturale e politica (di recente riassume i termini del dibattito G. F. Ferrari, Relazione conclusiva, in Annuario AIC, Lo statuto costituzionale del non cittadino, Jovene, 2009). Come afferma l’autore “in un mondo di risorse scarse “il riconoscimento della libertà di ingresso e soggiorno degli stranieri trova un limite nel diritto dello Stato di selezionare i nuovi membri e salvaguardare la coesione della collettività nazionale”. Tema trasversale dell’opera è quindi l’osservazione dell’oscillazione della libertà dello straniero tra un’idea “debole” di libertà, la cui attribuzione deriva dal possesso dello status civitatis, e una “forte” riconducibile al criterio della territorialità.
La prima, affrontata dall’autore a partire dalla elaborazione jellinekiana dei diritti pubblici soggettivi, ha pesato nella elaborazione concettuale della condizione giuridica dello straniero e, nonostante i temperamenti introdotti dalla Corte costituzionale attraverso il combinato disposto dell’art. 3 Cost. e dell’art. 2 (cfr. sent. n. 120/1967), continua a condizionare i diritti degli stranieri: nella esclusione dei diritti politici; nel riconoscimento della discrezionalità del legislatore che può escludere i non cittadini dalle libertà non fondamentali; nella tuttora viva distinzione tra titolarità ed esercizio delle libertà fondamentali (cfr. sent. 104/1969).
La seconda, che viene ricondotta al filone anglosassone e che trova nella giurisprudenza della Corte suprema di fine ’800 l’interprete più prestigioso (cfr. sent. Yick Who v. Hopkins del 1886 con cui la C. S ha affermato la riferibilità dell’equal protection clause del XIV emendamento agli stranieri), si basa sulla valorizzazione del “dato fattuale della presenza dell’individuo nel territorio”. Questa seconda prospettiva, peraltro, non è impermeabile all’ingresso di considerazioni economicistiche nel riconoscimento dei diritti ammettendo una loro rimodulazione, sintetizzabile, secondo l’espressione richiamata dall’autore, nel principio “the longer the stay, the stronger the claim”(p. 24). Un’idea di libertà della quale possono trovarsi significative tracce anche nelle politiche di immigrazione di alcuni Stati europei, come l’istituto dell’arraigo (lett. il “radicamento”) in Spagna o la possibilità di regolarizzazione individuale in Francia, e soprattutto nelle decisioni di alcune autorità giudiziarie in Europa, in particolare della Corte EDU, che ha interpretato l’art. 8 della Convenzione quale parametro ostativo all’espulsione, proprio sulla base dei legami familiari e sociali intessuti dallo straniero (ricostruita da G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Jovene, 2006). D’altronde è proprio su questa idea “forte” di libertà che può rinvenirsi il fondamento della proposta, al momento in cui si scrive ancora in discussione, di riconoscere la cittadinanza anche agli stranieri irregolari presenti negli Stati Uniti in virtù dei legami intessuti con la società. […]