L’incontro di studio che vengo ad introdurre presenta profili di continuità con quello, sempre organizzato dall’Anppia, che ebbe a svolgersi nella “Casa della memoria” nell’aprile 2014.
In quell’occasione ci occupammo dell’opera della magistratura (intendendo il termine come comprensivo dei giudici ordinari e speciali) durante il fascismo. Nella presente sede intendiamo analizzare la vita e lo sviluppo delle istituzioni nel vigore della “costituzione repubblicana”. Il tema è più ampio, perché comprende anche la considerazione di strutture che non sono giurisdizionali, ma, come vedremo, il ruolo della magistratura è stato di non poco rilievo anche in questo secondo dopoguerra.
Ricordo un famoso saggio di Barrington Moore, sulle basi sociali della democrazia e della dittatura. L’illustre sociologo americano muove dall’ipotesi per cui sono particolarmente esposti a ritorni autoritari quegli ordinamenti nei quali la “rivoluzione liberale” non ha davvero estirpato le radici assolutistiche o feudali, consegnate dalla tradizione pregressa. Certo, l’assolutismo, osserva detto autore (come già Machiavelli aveva visto, in un lucido luogo dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio), in qualche modo, erode le radici del feudalesimo, trasformando i feudatari in dignitari di Corte e, comunque, commutandone il potere in privilegi, creando, d’altra parte, un mercato retto da regole uniformi, razionali ed imparziali sull’intero territorio di una nazione e consentendo così lo sviluppo delle attività produttive, etc. Ma, infine, sia il feudalesimo, sia l’assolutismo in alcuni contesti (Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America) sono radicalmente superati proprio ad opera delle forze produttive che hanno favorito (in alleanza precaria con le masse popolari), in altri (Germania, Giappone) giungono a compromessi con il nascente liberalismo. In questo secondo caso, nascono regimi “duali” che conservano un seme di autoritarismo estremamente rischioso quando la tensione sociale supera certi limiti. Le forze della conservazione sociale possono, allora, trovare un appoggio, fatale per la democrazia, nei residui autoritari degli apparati.
Il saggio mi sembra estremamente realistico, pur se l’ipotesi di un fondamento della democrazia solo in un sistema produttivo fondato sull’impresa, la concorrenza, il benessere collettivo ed il “permissivismo” che vi si accompagna, è, forse, troppo ristretta. In altri contesti la democrazia ha trovato fondamento in un’economia agricola e artigianale (come nella Svizzera delle origini, prima che in fattore finanziario prendesse il sopravvento) e fin anche in strutture di carattere militare. […]