Per meglio comprendere il presente è utile dare uno sguardo, sia pure rapido, al recente passato. E allora basterà ricordare i risultati elettorali del febbraio 2013 ed il ruolo svolto dall’allora CDS Napolitano. Ruolo riassumibile in due fondamentali decisioni preelettorali, ed in una successiva alle elezioni. La prima è del 2010, allorché egli fece rinviare di un paio di mesi il dibattito parlamentare sull’uscita dei postfascisti di AN dalla maggioranza che sosteneva il IV Governo Berlusconi – dibattito al quale sarebbero seguite, con ogni probabilità, l’apertura della crisi governativa e le dimissioni del Governo-; un rinvio che consentì a Berlusconi l’acquisizione del numero di parlamentari sufficiente a compensare l’abbandono dei postfascisti, ed a rimanere alla guida del Governo. La motivazione della richiesta presidenziale fu di approvare, preventivamente, il bilancio dello Stato per mettere in sicurezza i nostri conti pubblici sui quali si era concentrata l’attenzione critica dell’UE.
E di certo non si trattava di un banale pretesto, ma piuttosto di una mezza verità: nel senso che l’altra metà consisteva nel timore del CDS che la crisi avrebbe potuto condurre all’allontanamento dal potere di FI, ossia del più grosso partito nazionale. La seconda decisione fondamentale è stata presa nel 2011, quando – dinanzi alle dimissioni di Berlusconi, in lite col suo Ministro del Tesoro Tremonti (a proposito del risanamento finanziario preteso dall’UE)- il CDS venne sottoposto a pressanti richieste dei partners europei, oltre che dell’opposizione, affinché si liberasse dell’impresentabile Cavaliere; ma, anziché avviare le procedure atte ad interpellare sollecitamente il popolo sovrano in ordine alle difficoltà interne ed internazionali che si profilavano, preferì affidare al prof. Monti la guida di un Governo “tecnico”, che avrebbe dovuto attuare senza indugio le misure richieste dall’UE. Governo tecnico che – sia detto per inciso- essendo sostenuto in Parlamento da una “strana maggioranza” (copyright Monti) composta da tutti i principali partiti, compresa FI, solo in parte allontanava Berlusconi dal potere.
Quanto poi alla decisione successiva alle elezioni del 2013, basterà ricordare che da queste non nacque una vera maggioranza parlamentare, ma tre minoranze di entità simile – nell’ordine: PD, FI, M5S- reciprocamente incompatibili in coerenza con le enunciazioni programmatiche formulate nel corso delle rispettive campagne elettorali. A questo punto, mentre si rivelava oggettivamente difficile la formazione del Governo, torna nuovamente in scena, in veste di deus ex machina, il Presidente Napolitano. Il quale, espletate le consultazioni di rito, conferisce bensì – in conformità alla prassi- l’incarico di formare il Governo alla principale delle tre minoranze, ossia al PD, ma pone al suo Segretario Bersani la condizione di trovare in Parlamento una maggioranza di sostegno ampia e coesa, pur sapendo benissimo – in virtù delle consultazioni precedentemente compiute- che si trattava di una condicio impossibilis a causa dei veti reciproci che PD, FI, e M5S (questo, in particolare, pretendendo di governare da solo!) avrebbero posto. Bersani avrebbe potuto (e forse dovuto) a quel punto declinare un incarico così condizionato, ma non lo fece, e tornò al Quirinale con la proposta di formare il Governo con chiunque in Parlamento avesse accolto il programma che lui intendeva sottoporgli; fermo restando che nel suo Governo non sarebbe entrata FI, giacché sulla promessa di non governare mai più coi berluscones (dopo l’inaffidabilità che avevano dimostrato nel Governo Monti, fuoriuscendone d’improvviso e inopinatamente) il PD si era impegnato con i suoi elettori. Senonché, Napolitano non ne volle sapere, “congelò” l’incarico a Bersani, mise al lavoro un Comitato di esperti da lui stesso scelti per la stesura di un programma, e dopo qualche giorno passò l’incarico al vice di Bersani nel PD, E. Letta.
Il quale accettò, concordando col CDS una soluzione all’italiana delle difficoltà che aveva incontrato Bersani, nel senso che avrebbe costituito un Governo di “larghe intese”, comprendente anche i berluscones, col compito limitato alla predisposizione di riforme istituzionali e costituzionali, in relazione alle quali – trattandosi di “regole del gioco” su cui è doveroso cercare il più ampio consenso- la partecipazione dei berluscones si rivelava non solo accettabile, ma addirittura auspicabile.
Volendo trovarlo, l’inghippo insito in questa soluzione sarebbe stato facilissimo da scoprire, poiché è naturale che qualsiasi Governo, anche se programmaticamente finalizzato a confezionare riforme del massimo impegno, deve anche gestire la quotidianità, compiendo scelte che poi andranno approvate dalle Camere. Dove, evidentemente, la maggioranza numerica formata da PD e FI era bensì ampia, ma anche solcata da profonde divisioni: non per nulla PD e FI si comportavano da sempre come antagonisti radicali. Il seguito è troppo recente perché lo si debba ricordare nei dettagli. Fatto sta che ad un certo punto l’insofferenza dei berluscones per il Governo Letta conduce alla loro spaccatura: i “ministeriali” restano nel Governo e si raccolgono nel NCD, gli “ortodossi” (antiministeriali) escono dal Governo e fanno quadrato in FI. Poco dopo, l’insofferenza dei democratici si manifesta a sua volta col siluramento del Premier Letta e nella sua sostituzione col giovane Renzi (che frattanto aveva dato la scalata al PD, diventandone il Segretario). E tuttavia, in breve tempo i nodi vengono al pettine mostrando che, se da un certo punto di vista la fuoriuscita dei berluscones ortodossi rafforzava la compattezza del Governo, per un altro verso metteva in tensione il NCD (bersagliato dalla facile accusa degli ortodossi di essersi venduto per qualche poltrona ministeriale), con l’effetto conclusivo di una sotterranea destabilizzazione dell’Esecutivo. Ma soprattutto vengono al pettine i nodi della riforma elettorale e di quella costituzionale. Col che entriamo in piena attualità. […]