I saggi di Giuseppe Guarino e di Dieter Grimm, pur a partire da argomentazioni giuridiche e sensibilità culturali alquanto differenti, svelano un focus comune: la questione democratica europea dopo il Trattato di Lisbona. Questione dalla cui risoluzione dipenderebbero – secondo entrambi questi autori – gli sviluppi e lo stesso esito del processo di integrazione europea.
Per Guarino, infatti, con “il regolamento 1466 e successivi si sarebbe posto fine al sistema democratico”: «[un esito] tanto più sorprendente qualora si consideri che è avvenuto senza violenza, in silenzio, senza che nessun si sia reso conto di quello che stava accadendo». Ciò a cui, in altre parole, avremmo assistito in questi anni è la definitiva rottura della dimensione democratica in Europa: il concetto di democrazia allude, secondo Guarino, innanzitutto alla libera determinazione di una “politica economica autonoma” da parte di un Parlamento eletto direttamente dai cittadini. Ma il Parlamento europeo è sprovvisto di questo potere e anche a livello nazionale “il governo non ha il potere essenziale di decidere la sua politica economica”. È da qui che prende le mosse la sua riflessione sulla instaurazione de facto del nuovo regime e su ciò che egli stesso non ha esitato a definire il coup d’Etat: «il regolamento 1466 – scrive Guarino- ha soppresso in un sol colpo, e alle spalle di tutti, tutti i poteri necessari per adottare e attuare la politica economica nazionale».
Tra processo di integrazione e democrazia si sarebbe pertanto determinato una sorta di corto circuito che rischierebbe oggi di far naufragare la costruzione dell’Europa unita. A rivelarlo è anche Dieter Grimm, per il quale a partire per lo meno dal Trattato di Maastricht, “le istanze politiche e democraticamente legittimate degli Stati membri e dell’UE si trovavano fuori gioco. Fin dove c’erano i Trattati, i meccanismi democratici non erano in grado di intervenire”.
Una diagnosi spietata, ma per molti aspetti condivisibile. Per l’Europa è giunto, pertanto, il momento di decidere se continuare ad essere uno stantio luogo di intesa politica e normativa (fra élites, poteri economici, lobbies finanziarie, governi) oppure se voltare pagina, provando a rilanciare su basi democratiche il processo di integrazione. Un percorso certamente arduo e del quale, a tutt’oggi, non se ne intravedono neppure le premesse, ma tuttavia possibile. Ma ad una sola condizione: che l’Europa non continui più a diffidare del demos, della sovranità, della democrazia.
Per fondare democraticamente l’ordinamento europeo non basta quindi dedicarsi a qualche sofisticata operazione di maquillage “istituzionale” nell’illusione di riuscire, in tal modo, a lenire, la condizione deficitaria della democrazia nell’Ue. Anzi (per quanto ciò possa apparire paradossale) l’Europa dovrebbe muoversi in direzione esattamente opposta, destrutturando quello che è stato, fino a oggi, l’ordine del discorso sulla democrazia con tutte le sue annesse e incalzanti banalizzazioni.
Per fondare democraticamente l’Europa bisognerebbe – per essere più precisi- affrancarsi una volta per tutte dalle ridondanti litanie sul “deficit democratico”. E ciò non perché – com’è evidente- di democrazia oggi in Europa ve n’è fin troppa. Ma semmai – esattamente all’opposto- perché vi è troppo poca. Talmente poca che parlare di deficit (e quindi di mera “insufficienza”) in un siffatto contesto rischia di rivelarsi, più che riduttivo, fuorviante.
La questione democratica non può continuare a essere recepita in Europa come una leziosa dependance del processo di parlamentarizzazione dell’Unione (e in quanto tale spontaneamente risolvibile attribuendo più controlli alle assemblee nazionali, più competenze al Parlamento europeo, più trasparenza). […]