Nel recente volume Contro la dittatura del presente, Zagrebelsky racconta l’attuale degenerazione della democrazia che, come fosse affetta da una malattia ciclica e ricorrente, quasi congenita a questa forma della politica, si sostanzia in una mutazione oligarchica. Questa involuzione è fortemente rimarcata dai critici della democrazia che la considerano un destino inevitabile, un precipitato della cosiddetta “ferrea legge delle oligarchie” secondo la quale, “in generale”, “ogni governo democratico non è che una fugace meteora il cui fulgore esclude qualsiasi durata” e “questo fugace lasso di tempo genera distruzione e rischia di doversi poi pagare caro e a lungo”. Infatti, secondo questa legge vincolante della politica, coniata all’inizio del Novecento da Roberto Michels, proclamata la democrazia, “i grandi numeri, una volta conquistata l’uguaglianza, ossia il livellamento nella sfera politica, […] hanno bisogno dei piccoli numeri, hanno bisogno di ristrette oligarchie”.
Per Zagrebelsky la persistenza delle oligarchie rappresenta uno dei principali sintomi della odierna fase di significativa vulnerabilità che la democrazia sta affrontando e la prima motivazione è che la democrazia è innanzitutto una, tra le altre, forma della politica, ma la politica, al tempo stesso, è proprio la sostanza della democrazia. Se manca la sostanza, la forma è vuota di contenuto ed è questo che sta succedendo alla democrazia: si sta svuotando del proprio contenuto, ovvero della politica. Questa considerazione, questo stato delle cose, conduce l’autore a trarre delle conclusioni, circa le cause di questo fenomeno, che sfociano in una deriva nichilistica in perfetta linea con il dibattito decennale sul fenomeno del nichilismo giuridico che lega Natalino Irti ed Emanuele Severino (in particolare nel volume N.Irti – E.Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001).
Per spiegare la crisi della democrazia, infatti, Zagrebelsky analizza diversi fattori, dando tuttavia particolare rilievo al condizionamento che la finanza esercita sulla formazione delle coalizioni politiche e sulle compagini ministeriali. In nome della stabilità, necessaria per rasserenare i mercati finanziari, le coalizioni politiche sono tanto meglio accettate quanto più incapaci di scelte propriamente politiche, dunque selettive – come avviene nei casi in cui i confini delle maggioranze s’allargano a intese trasversali; mentre le compagini ministeriali sono profondamente apprezzate nel momento in cui sono composte da elementi “tecnici”, conosciuti e stimati negli ambienti bancari e finanziari.
Questo è il processo che conduce al depauperamento della democrazia, poiché emargina e neutralizza di fatto le spinte sociali, in quanto irrazionali e non omologabili alla logica dei mercati finanziari. Esse sono tuttavia la linfa della politica e dunque la sostanza della democrazia, che viene in questo modo completamente svuotata del suo significato originario. Questa spirale distruttiva, che conduce a conseguenze quali la paralisi della rappresentanza, il congelamento della competizione politica, la perdita di significato delle promesse e dei programmi elettorali, il predominio del governo nella sua versione tecnica ed esecutiva di volontà altrui e sovrastanti, viene icasticamente descritta dall’autore attraverso l’espressione di postdemocrazia, ovvero “divieto di discorso sui fini”, e tramite l’immagine dell’uroboro: l’immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò che essa contiene. Il rapporto tra denaro e politica consiste infatti in un reciproco sostentamento tale per cui “il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro” il quale, a sua volta, “sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento del) il potere”. Tuttavia, secondo Zagrebelsky, “mente l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro-sistema politico-finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali”. Le risorse in questione vengono prese dall’economia reale in cui gli attori, come in una sorta di inferno dantesco, sono divisi in tre cerchi concentrici: nel primo si trovano coloro che stanno nel “serpente”, ovvero i privilegiati del potere e del denaro che, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), lucrano dallo scambio denaro-potere; nel secondo, invece, si trova il ceto-medio, cioè “coloro che operano per fornire loro la humus materiale necessaria, in ciò che resta della economia reale”; infine, nel terzo, vi sono “gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la crescita”, “parola-chiave dell’uroboro”. […]