L’indagine rigorosa che Silvia Talini sviluppa nelle pagine di questo volume offre di certo un approccio inusuale ad un tema complesso come quello della privazione della libertà personale. Inusuale perché, ben lontano da un’operazione meramente ricognitiva, esso è tutto diretto a leggere in maniera organica e perfino evolutiva la complessa congerie di apporti legislativi, giurisprudenziali e amministrativi che presidiano l’ordinamento penitenziario in Italia. Tutto in un dinamico rapporto con i principi della Carta del 1948, che l’Autrice, con l’occhio del buon costituzionalista, rappresenta come agenti vitali (vivi ancor più) di un “processo evolutivo potenzialmente illimitato” che sistematicamente riesce a far emergere i diritti fondamentali del costretto, spesso non pienamente coperti dalla legislazione, ma di certo parte fondante di quella “residuale libertà” che lo stato di detenzione non scalfisce e «che è tanto più prezios[a] in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la […] personalità individuale [del soggetto sottoposto al trattamento penitenziario]» (Corte costituzionale, sentenza n. 349 del 1993). E proprio la Carta costituzionale si pone, in un certo senso, quale spartiacque tra una data concezione del carcere quale strumento sanzionatorio di natura prettamente preventiva e retributiva (satisfattoria a dir meglio), propria del regime autoritario fascista ma non estranea nemmeno alla dottrina giuridica penale del primo Novecento, ed una funzione nuova dell’esecuzione penale, non più totalmente servente esigenze di protezione di interessi generali, ma centrata sul rispetto della dignità della persona sottoposta alla restrizione della libertà.
Con il nuovo ordinamento assoggettato alla Costituzione, «la privazione della libertà personale subisce […] un irretrattabile mutamento di fisionomia: il trattamento offerto nel corso dell’esecuzione penale, per espresso vincolo costituzionale, deve conformarsi al senso di umanità, assicurare il rispetto della dignità della persona e garantire l’attuazione di un percorso rieducativo che offra a ciascun condannato la concreta possibilità di reinserimento nella vita in società». Questo doppio principio di umanità e finalismo rieducativo – sancito dall’articolo 27, comma 3, della Carta – si inserisce, in realtà, all’interno di una complessa architettura costituzionale, che, considerati gli articoli 2 e 3 della Costituzione, vede la libertà-dignità come formante supremo ed inviolabile dell’ordinamento, ben oltre il semplice dato formale (pari dignità sociale ed uguaglianza davanti alla legge), ma in un’accezione sostanziale imprescindibile, […]