“Una costituzione non consiste in una serie di articoli più o meno ben allineati, e neppure in un complesso di uffici e di istituti giuridici, ma è invece una totalità di vita associata, un organismo vivente”. Così scriveva Costantino Mortati ne “La costituente” del 1945.
In tal modo rifletteva – con un di più di organicismo che lo caratterizzava (“vita associata”, “un organismo vivente”) – un principio di unitarietà delle costituzioni che era un prodotto ormai certo e indiscusso del costituzionalismo moderno. Senza dover risalire ad Aristotele (la politeia era considerata come un ordine complessivo della polis), Cicerone (con la sua constitutio populi) o ai monarcomachi francesi (con la fondazione della lex fundamentalis), basta prendere in considerazione l’atto costitutivo il costituzionalismo moderno, che pone il legame tra le parti specifiche del testo costituzionale come la condizione di esistenza della stessa costituzione. È l’articolo 16 della Dichiarazione del 1789 ad affermare che non vi è costituzione se non sono presenti almeno due elementi tra loro interrelati: assicurare i diritti e garantire la divisione dei poteri. La salvaguardia dei primi dipendendo dall’organizzazione dei secondi, e viceversa. […]
Questa certezza nei tempi più recenti, nel nostro paese, sembra essere stata rimossa, rivendicandosi, all’opposto, una netta separazione tra parti del testo. Sostenendosi, in particolare, che solo la costituzione dei diritti sarebbe intangibile e depositaria della vera essenza della costituzione vigente, mentre la costituzione dei poteri avrebbe un valore meramente organizzatorio, sostanzialmente nella disponibilità del revisore. La ragione di questa eclissi della ragione costituzionale, a mio parere, è essenzialmente legata a esigenze politiche ed ha natura strumentale, collegata alla particolare involuzione del nostro sistema politico, alla sua infinita transizione. […]