Quando si parla di costituzionalismo “moderno”, spesso si tende ad identificarne il suo tratto distintivo, la sua “originalità” nel fatto che esso si definisca a partire dall’idea della necessità di una costituzione scritta, di contro ad una tradizione, quale quella medievale, connotata da leggi fondamentali di natura essenzialmente consuetudinaria. Per quanto corretta sia, certamente, tale prospettiva, occorre però non dimenticare come lo sviluppo del costituzionalismo sia, in realtà, più complesso di quanto non possa sembrare, e non risponda, del resto, ad un processo “unitario”, ad una eguale evoluzione nei diversi paesi europei. Se, poi, si pensa all’Inghilterra, allora la questione si complica, certamente, ancora di più, poiché – come osservava Litton Strachey, «la costituzione inglese, questa entità indefinibile, è una realtà vivente che cresce come crescono gli uomini, e assume forme sempre varie in conformità con le leggi sottili e complesse della natura umana. E’ figlia della saggezza e del caso».
In Inghilterra, allora, il costituzionalismo “moderno” è inseparabile con il processo che attiene, più che al “governo”, all’attività della iurisdictio, ossia alla definizione dei limiti e dei vincoli che il Re incontra nell’esercizio dei suoi poteri e delle sue prerogative. Bisognerebbe ricordare, perlomeno, il Bonham Case. Un medico viene denunciato dalla corporazione dei medici per esercizio abusivo della professione, tratto in arresto e processato in nome del Re. Siamo nel 1610, e Coke ricorda così il proprio intervento:
«Allora il Re disse che pensava che la legge fosse fondata sulla ragione, e che anche lui ed altri possedevano la ragione al pari dei giudici. Al che fu da me risposto, che era vero che Dio aveva dotato Sua Maestà di preclara scienza e di grandi doni naturali, ma che Sua Maestà non era erudito nelle leggi del suo regno; e che le cause riguardanti la vita o il patrimonio o i beni e le fortune dei suoi sudditi non eran cose da decidersi in base alla […]