Riprendo il titolo che Fulco Lanchester ha dato a questa tavola rotonda finale,“Partiti sregolati e poi?”, solo per notare che in esso sregolati non vuol dire smodati, ma vuol dire non regolati; e io sono convito che una regolazione, non necessariamente dedicata a primarie o ad elezioni dirette, ma piuttosto a promuovere processi partecipativi, forse avrebbe potuto cambiare qualcosa. Ci pensammo già Francesco Clementi ed io in un appunto che facemmo per Mario Monti, quando era Presidente del Consiglio. Ma nulla ne seguì. Il punto è questo: il concorso che i partiti di massa hanno dato alla democrazia è ben più di ciò che alla democrazia può essere dato dal fatto che il capo di un gruppo sia eletto dagli appartenenti al gruppo stesso anziché designato dai suoi maggiorenti, profilo che pure attiene alla democrazia.
I partiti, infatti, hanno reso possibile che una forma di governo, la democrazia rappresentativa, pensata per una ristretta classe elitaria, riuscisse a contenere con il passare dei decenni l’incontenibile presenza dei numerosi soggetti che, prima esclusi, a un certo punto pretesero di divenire cittadini attivi. E sono stati proprio i partiti quel differenziale che ha consentito che questo accadesse. Come l’analisi economica ci spiega, all’interno di un ristretto gruppo composto da persone con gli stessi connotati economici e sociali esistono, sì, preferenze individuali diverse tra loro, ma le preferenze condivise sono più che sufficienti a far funzionare un meccanismo rappresentativo in cui chi rappresenta è in condizione di comportarsi e di scegliere da rappresentante comune. Quando però, entra la massa dei tanti esclusi di prima, non c’è soltanto il bipolarismo del conflitto di classe, ma emergono le numerose, distinte preferenze dei tanti sub-gruppi che diviene essenziale collegare. Si trovano, infatti, gli interessi dell’artigiano, del piccolo imprenditore, dell’operaio che ha famiglia e dell’operaio single, del contadino, del bracciante del mezzadro e così via […]