Nel tempo sono fioriti diversi studi su argomenti ormai considerati classici del diritto pubblico comparato, campi ‘arati’ come il bicameralismo e il federalismo, e occasionalmente non sono mancate riflessioni sulla connessione tra i due argomenti. Lo studio di Giancarlo Doria, qui analizzato, spicca però per l’originalità della sua impostazione. Il motivo è soprattutto uno, e l’autore lo spiega esplicitamente in questo lavoro che – come ricordato nella Prefazione di F. Lanchester- costituisce pubblicazione di una tesi di laurea discussa nel 2006. A Doria non interessa produrre un’analisi della evoluzione storica degli assetti parlamentari a due Camere in relazione al federalismo, né una rappresentazione, condensata in un’immagine sincronica, di aspetti tecnici di alcune tra queste istituzioni sul piano normativo e su quello della prassi (eppure anche su questi punti si sofferma a più riprese, con esattezza, dove lo ritiene opportuno in relazione allo scopo della ricerca).
Quello che gli preme è la ben più impegnativa sfida di fornire una compiuta giustificazione teorica del bicameralismo, ricostruirne insomma la ratio, che però, non essendo riducibile a unità – come Doria rileva presto- va rintracciata semmai in una pluralità di rationes; e su questo si tornerà. In proposito, si vuole dare la parola direttamente all’autore, laddove egli (p. 42) così giustifica l’impervio compito autoassegnatosi di giustificare sul piano teorico-astratto un istituto la cui genesi, come da lui riconosciuto, risiede soprattutto in esigenze pratiche di un momento concreto, sia pure con riproduzioni di tempo e di luogo, e dunque non programmate ‘a tavolino’: «[I]l legame fra storia dei fatti e storia delle idee non deve essere appiattito su un modello univoco: se quindi è necessario per onestà intellettuale affermare che la seconda è spesso debitrice della prima, non se ne deve concludere che essa ne è lo specchio fedele o che non si possano dare fenomeni di retroazione». Sembra che con retroazione vada intesa qui un’interpretazione ex post, retrospettiva, di fenomeni precedenti non frutto di una lucida programmazione, capace di decifrare con più profondità i fatti in un nesso tra causa ed effetto alla luce del quale si possano anche formulare eventuali predizioni (sebbene un’aspirazione in tal senso non sia chiaramente espressa nell’opera).
La constatazione, storicamente semplice ma non ovvia, per cui il bicameralismo sorge prima del federalismo – inteso quest’ultimo in senso moderno- convince Doria dell’opportunità di una disamina intorno alle forme di organizzazione bicamerale di tipo non o pre-federale. Questo è giusto sul piano metodologico se solo si consideri che i framers del federalismo avevano già a disposizione sistemi parlamentari a due camere come modello di riferimento, e dunque un’indagine su tali modelli, e la visione che se ne poteva avere, serve a mettere meglio a fuoco quale relazione, se ve n’era davvero una, essi intendessero instaurare tra federalismo e bicameralismo. A partire da questo dato prende avvio l’impostazione perseguita in tutto lo studio, quella per cui – che si tratti di ordinamenti federali o meno- il bicameralismo si fonda su due contrapposte teorie, ciascuna delle quali dà luogo nel tempo ad una molteplicità di modelli, così da poter impostare una griglia di interpretazione, soggetta a sua volta a complicazioni quando su di essa si va a innestare il federalismo.
Una teoria è quella definita “liberale-garantista”, per cui le istituzioni sono strumentali rispetto al fine di assicurare la libertà e l’individualità dei governati; rispetto a tale fine, il conflitto – sembra doversi intendere tuttavia conflitto da circoscriversi entro le istituzioni- è da considerarsi anche positivo, in quanto limitazione del potere e dunque presupposto di maggiore libertà per i cittadini. La seconda è invece la teoria “democratico-rappresentativa”, entro la quale si postula al contrario esigenza di rappresentanza, non importa ora se di ordini, ceti, interessi, partiti, individui, al fine di comporre un conflitto che qui viene visto come inevitabilmente rischioso e negativo. Ciascuna di queste teorie, come accennato, presuppone una serie di modelli, vale a dire di articolazioni sul piano strutturale-organizzativo (senza contare il paradosso che strutture possono mantenersi immutate in tutto o in parte nello stesso momento in cui viene alterata la loro giustificazione teorica).
Già mettendo a fuoco il solo bicameralismo non federale vengono in evidenza otto modelli, quattro dei quali (ordinale; cetuale; corporativo; dialogico) sono da ascriversi alla teoria rappresentativa (non in tutti i casi democratica), mentre quattro (Costituzione mista; costituzione democratico-mista; doppia rappresentanza; governo diviso) vengono giustificati con la teoria liberale-garantista. […]