La sentenza 13 gennaio 2014, n. 1, della Corte costituzionale, attraverso cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge elettorale per i due rami del Parlamento, presenta almeno tre aspetti degni di riflessione: la questione preliminare dell’ammissibilità del ricorso; il merito della decisione; i riflessi della pronuncia sull’attività parlamentare, quale sia cioè la portata dei vincoli che la stessa produce nei confronti del legislatore che volesse adottare una nuova legge elettorale politica.
Partendo dal primo aspetto, è il caso di osservare che non era affatto scontato che la Corte giungesse a decidere nel merito, essendo quanto meno dubbia l’ammissibilità del ricorso sollevato dalla Corte di Cassazione per difetto di incidentalità. Tale riflessione nasce dalla considerazione per cui le norme sul processo costituzionale – in particolare, l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, di attuazione della riserva contenuta nell’art. 137, comma primo, della Costituzione, e l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – prevedono che l’accesso alla Corte sia filtrato da un «giudice» nel corso di un «giudizio», mentre nessuna legittimazione a ricorrere è concessa al singolo cittadino. Il caso qui in esame, pur nascendo formalmente nell’ambito di un autonomo giudizio nel quale gli attori avevano chiesto al giudice di accertare la portata del diritto di voto e rimuovere le norme che ne impedivano l’esercizio in conformità con gli standard costituzionali, rasenta nella sostanza il ricorso in via diretta. Il vero obiettivo dell’azione, infatti, era evidentemente quello di spingere il giudice a sollevare una questione di legittimità costituzionale, al punto che veniva a mancare proprio quel requisito che la stessa Corte ha indicato come naturale presupposto dell’incidentalità, vale a dire la netta distinzione tra i petita dei due giudizi.
D’altro canto, è innegabile che l’iniziativa abbia avuto il merito di scardinare una delle più problematiche «zone d’ombra» o «zone franche» del controllo di costituzionalità, individuando finalmente una modalità per sottoporre al sindacato della Corte le norme per l’elezione dei membri del Parlamento. Si sono creati così i presupposti per permettere alla Corte di pronunciarsi sulla legge Calderoli, da tempo tacciata di incostituzionalità da una dottrina pressoché unanime e ormai «bollata» da ben due «moniti», rimasti inascoltati. Tuttavia, la declaratoria di incostituzionalità della legge più politica dell’intero ordinamento costituzionale, quella che detta le regole del gioco, ha reso necessario chiudere un occhio sulle norme, poc’anzi richiamate, che disciplinano il processo costituzionale italiano. Il prezzo da pagare è stato quindi elevato, poiché non soltanto si è permesso un accesso alla Corte sostanzialmente diretto ma si è creato anche un pericoloso precedente, dato che ormai la strada per Palazzo della Consulta – quanto meno nella materia elettorale – è praticamente spianata.
A tal proposito, non ci si può esimere dall’avanzare alcuni dubbi sulla presente giurisprudenza. A quanti giustamente evidenziano che la Corte opera a tutela del principio di rigidità costituzionale – e, quindi, al fine di evitare che principi fondamentali e diritti siano vanificati dall’attività del legislatore – si potrebbe rispondere che anche le norme sul processo costituzionale sono di rango superprimario, sicché la tutela della legalità costituzionale passa anzitutto per il rispetto di queste ultime che, giova ricordarlo, non prevedono, a differenza di altri ordinamenti, che il singolo possa adire la Corte neppure dinanzi a palesi violazioni di diritti e libertà fondamentali. Tale limitazione, giusta o sbagliata che sia, esiste e sin tanto che le norme che la impongono non vengono modificate è necessario rispettarle e non aggirarle. […]