Quale preliminare avvertenza: il tema di questa relazione sarà svolto secondo una determinata angolatura, la concezione che nell’età liberale sotto lo Statuto si aveva della revisione costituzionale.
Si ha qui riguardo a quella concezione, alle sue categorie costitutive, ad una sorta di mentalità costituzionalistica (terreno d’indagine su cui volgeva l’attenzione Mario Galizia, ad esempio nel suo bel saggio su Luzzatti costituzionalista) propria dell’età liberale.
Non risulta decisiva, ai fini di un’indagine siffatta, la odierna ricorrente dicotomica giustapposizione tra Statuto, Costituzione flessibile, e Carta repubblicana, Costituzione rigida, questa presidiata da uno speciale procedimento per la propria modificazione, quello sprovvisto di tutto ciò.
Invero una voce autorevole si è levata, a sostenere una ‘naturale’ rigidità dello Statuto, in quanto atto, Carta scritta: una rigidità ‘documentale’, ove la forma scritta è causa efficiente della rigidità. Solo in secondo tempo lo Statuto diviene da rigido, flessibile, per l’insorgere di una norma consuetudinaria sulla produzione normativa facoltizzante la sua modificazione da parte della legge ordinaria. Talché, potrebbe aggiungersi, una volta intervenuta la flessibilizzazione, si ricade nell’alveo precedente, di uno Statuto flessibile versus Carta repubblicana rigida.
É una raffigurazione non del tutto rispondente alla lettura quale poteva esser resa da un costituzionalista liberale di allora.
Per la prima generazione costituzionale liberale, i Balbo i Cavour coloro che vedono lo Statuto nascere, la partita si giocava intorno all’esistenza o meno di un potere costituente. Alcuni lo negavano, alcuni lo affermavano (per ragioni di sintesi, debbo qui rinviare ad un mio volume sul costituzionalismo ‘preorlandiano’). Nel potere costituente erano le maggiori implicazioni concettuali, per molti lo spettro della deriva assembleare giacobina, che vulnerava l’organizzazione dei poteri, la loro tripartizione (o quadripartizione, a seconda che si considerasse un vero potere il moderatore). E lì erano altresì le maggiori implicazioni politiche, la contesa fra movimento liberale e movimento democratico, per la guida del moto del processo unitario nazionale (con la prospettiva o meno di un’Assemblea costituente).
Per la generazione successiva, ormai a Regno d’Italia costituito, quel nodo si era sciolto. Il problema che si poneva ora era assicurare stabilità e mutamento insieme. E per affrontarlo si ricorreva ad un’idea di Costituzione, intesa come Costituzione storica, esemplata sull’Inghilterra – dove una Carta costituzionale in senso stretto, un documento, un unico documento non vi era, ma dicevano quei liberali, vi era vera Costituzione; vi erano istituti, garanzie, che tramite prassi, consuetudini, come dire il diritto vivente, materiale, l’avevano creata, questa Costituzione, la quale non è una mera Carta. E questa Costituzione, proprio perché inverata nella storia, proprio perché affondata nella coscienza civile di una nazione, offre vero presidio di libertà, vera tutela di diritti, vera prospettiva di sviluppo, di progresso. […]