L ’inizio del 2014 ha rappresentato un vero e proprio terremoto politico. Il mondo politico e istituzionale ha salutato il nuovo anno con un evento attesissimo, ma dagli esiti ipotizzati. La Corte Costituzionale, riunitasi a Palazzo della Consulta, ha decretato, con una sentenza storica e scontata, l’illegittimità costituzionale della legge elettorale n. 270/2005 censurandola sotto diversi profili.
Dal premio di maggioranza non condizionato al raggiungimento di una soglia minima di voti ottenuti dalle liste o dalle coalizioni, fino al sistema delle liste bloccate che ponevano nel vuoto il precetto costituzionale contenuto nel 1° comma dell’articolo 48 che sancisce la segretezza, la libertà, l’uguaglianza e la personalità del suffragio.
La sentenza n. 1 del 2014 si caratterizza per contenuti fondamentali e basilari che attengono al concreto funzionamento delle forme di governo e dei regimi politici. I rilievi sviluppati dalla Corte spiegano, altresì, importanti e significativi riflessi sul rapporto tra Stato-apparato e Stato-comunità e sulla legittimità o meno delle Camere elette in base alla normativa censurata e dichiarata incostituzionale, di continuare a legiferare anche alla luce del classico principio di continuità degli organi costituzionali. Su questi e su molti altri aspetti la pronuncia del Giudice delle leggi ha provocato un veemente e intenso dibattito all’interno della scienza costituzionalistica italiana e tra le stesse forze politiche presenti in Parlamento sulla necessità di dotare il Paese di una normativa elettorale che potesse recepire le osservazioni della Corte. Come è noto, le Camere, nell’aprile del 2015, hanno approvato la nuova legge elettorale che, sebbene in vigore soltanto dal 1° luglio 2016, sostituisce la formula elettorale puramente proporzionale che è scaturita dall’annullamento di quelle parti che nel precedente sistema di trasformazione dei voti in seggi non erano conformi alla Carta Costituzionale.