I saggi di Dieter Grimm e di Giuseppe Guarino invitano a riflettere sulle numerose criticità che interessano la costruzione istituzionale europea. Questa, non da ora, appare sofferente sotto il profilo del circuito democratico-rappresentativo. Grimm denuncia l’autonomizzazione dei poteri Esecutivo e Giudiziario, vale a dire della Commissione europea e della Corte di Giustizia UE. Questa eccessiva autonomia – a detta dell’autore – si è potuta realizzare, da un lato, a causa del deficit di rappresentatività del Parlamento europeo e della debolezza, se non evanescenza, del sistema partitico sovranazionale; dall’altro, a causa della costituzionalizzazione de facto dei Trattati. Questi, proprio in ragione della loro collocazione nella gerarchia delle fonti europee, per un verso, sfuggono al semplice intervento di politica legislativa; per altro verso, costituiscono il parametro sulla base del quale la funzione nomofilattica ed esegetica della Corte di Giustizia ha potuto evolversi in vera e propria giurisprudenza di rango costituzionale. Quanto sostenuto da Grimm si integra pienamente con la critica mossa da Guarino, che rileva come agli Stati nazionali membri dell’Unione Monetaria, all’interno dei quali vigono sistemi democratici e rappresentativi più o meno funzionanti, con l’adozione della moneta unica sia stato sottratto il pilastro fondamentale della sovranità di politica economica, cancellando per questa via la possibilità dei cittadini di incidere sulle decisioni economiche fondamentali dei loro Governi. In questa prospettiva, lo studioso giunge a sostenere che la democrazia sia stata soppressa nel 1999. Tutto questo rende evidente l’urgenza di correggere le disfunzioni che gravano sulla costruzione europea sotto due profili: quello della rappresentatività delle istituzioni e quello della responsabilità degli attori istituzionali. Storicamente queste due esigenze hanno trovato un momento di incontro attraverso l’intermediazione del partito politico, grande assente nel contesto di cui si discute.
Gli ordinamenti giuridici occidentali contemporanei, infatti, si basano sul meccanismo della democrazia rappresentativa, che può essere essenzialmente definito come il congegno che permette di identificare i rappresentanti alle cariche autoritative attraverso procedure di deliberazione collettiva. Tale meccanismo presuppone necessariamente per il suo adeguato funzionamento l’esistenza di corpi intermedi tra la società e le istituzioni, quali sono i partiti politici. Questi hanno il ruolo di “sublimare” i multiformi interessi della popolazione votante onde giungere alla razionale identificazione dell’orientamento politico delle istituzioni. I partiti politici costituiscono, pertanto, una necessità tecnica delle moderne democrazie, tanto che – come già autorevolmente affermato – “nessun grande paese libero è stato senza di essi. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di loro. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. Ciò si è dimostrato vero sulla base dell’esperienza storica sin dall’avvento dei primi partiti di massa nel XX secolo – intesi quali imprescindibili strumenti di partecipazione politica in grado di incanalare l’imponente “domanda democratica” scaturente dall’estensione del suffragio. Altro dato storicamente verificato, peraltro, è che un contesto politico privo di soggetti partitici non può che essere segnato “da forme plebiscitarie o dal ritorno a pratiche trasformiste ed assembleariste (in ogni caso tutte dominate da gruppi di pressione di vario genere)”.
Da quanto detto emerge che la cosiddetta funzione di gatekeeping costituisce insostituibile ed essenziale carattere dei partiti politici, idonea a spiegare effetti sulla forma di governo nel suo complesso, poiché – nonostante essi si atteggino quali libere associazioni di cittadini- rappresentano pur sempre una zona di transizione tra lo Stato e la società civile. Tale assunto conduce alla problematica concernente la regolamentazione delle funzioni pubblicistiche dei partiti politici, che è stata identificata in due principi generali, individuati con riferimento al contesto italiano, ma facilmente estensibili anche ad esperienze diverse. Tali principi sono “la concezione della disciplina in rapporto ai diritti ed ai doveri degli iscritti” e le “maggiori o minori possibilità, in possesso di questi ultimi, per influire sulla designazione alle cariche elettive”. In questa prospettiva, è palese la centralità del tema relativo alla partecipazione dei cittadini alle dinamiche interne ai partiti politici e la permeabilità dei gruppi dirigenti rispetto alla domanda partecipativa stessa. Il principio del pluralismo politico, infatti, presupponendo la posizione paritaria di tutti i cittadini circa le possibilità di incidenza politica, si riverbera ineluttabilmente sui partiti politici non solo con riguardo al momento costitutivo e a quello competitivo finalizzato alla formazione degli organi rappresentativi, ma anche con riguardo al momento endoassociativo, il cui carattere democratico non può che essere considerato come “imperativo funzionale”. […]
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Di seguito si riporta il sommario del saggio: 1. Premessa 2. I rapporti tra i sistemi politici nazionali e il sistema politico di livello europeo 3. La regolamentazione interna ed esterna dei partiti politici di livello europeo 4. Una suggestione: il problema della compatibilità del partito europeo con l’assiologia dell’Unione