È preferibile che l’esame specifico delle modalità di attivazione della responsabilità penale dei membri del Governo nell’ordinamento italiano, prenda le mosse dalla nozione di “reati ministeriali”, che già in epoca statutaria ha suscitato controversie dottrinali – tuttora non sopite – circa la determinazione dei suoi esatti confini.
In vigenza della Carta ottriata del 1848 il dibattito dottrinale si articolava in tre orientamenti fondamentali. Il primo, c.d. del diritto penale comune, riconnetteva necessariamente le figure dei reati ministeriali alle fattispecie della legislazione penalistica allora vigente, prospettando, a differenza dei sostenitori delle altre due tesi, la possibilità di una giurisdizione ripartita tra organi della magistratura ordinaria e Alta Corte di giustizia, a seconda della qualificazione, funzionale o meno, dell’illecito.
Il secondo indirizzo, c.d. costituzionalistico, riconosceva l’autonomia delle ipotesi di responsabilità penale ministeriale, slegate da qualificazioni puramente penalistiche, considerando attivabile la procedura di messa in stato d’accusa sulla base di una valutazione politica discrezionale dell’Assemblea rappresentativa.
Il terzo orientamento, c.d. del reato politico, al fine di giustificare la deroga alla ordinaria giurisdizione rinveniva l’elemento qualificante il reato ministeriale nell’intento politico dell’agente.
Attualmente, il carattere penale degli illeciti ministeriali e la necessità di fare riferimento alla legislazione criminale comune, già pacifica in vigenza dell’originario disposto dell’art. 96, Cost., è assolutamente fuori di dubbio. Ciò alla luce della ratio complessiva della revisione costituzionale del 1989, che ha voluto “normalizzare” il perseguimento della responsabilità ministeriale, devolvendone la cognizione alla giurisdizione ordinaria. Permangono, tuttavia, diverse opinioni dottrinali in merito all’esatta individuazione della nozione di reati ministeriali, in ragione del fatto che, pur essendo mutata la normativa procedurale, gli aspetti sostanziali restano tuttora pressoché impregiudicati e bisognosi di chiarificazione.
Gli orientamenti della ricerca sul tema sono riconducibili a due filoni teorici generali: quelli della “tesi funzionale” e della “tesi politica”.
Il primo filone pone a presupposto della qualificazione del reato ministeriale la corretta interpretazione dell’inciso «commessi nell’esercizio delle loro funzioni», presente sia nella originaria versione della disposizione costituzionale sia nella sua nuova formulazione.
Qui è possibile collocare la dottrina della c.d. “contestualità cronologica”. Tale approccio individua l’elemento determinante la ministerialità del reato nella sussistenza di una relazione di contestualità temporale tra l’espletamento delle funzioni istituzionali e la condotta delittuosa, indipendentemente dal fatto che questa sia integrata da un atto d’ufficio o privato, rilevando unicamente la connessione cronologica con l’attività funzionale .
La tesi è stata criticata, soprattutto perché non è parso che la locuzione «commessi nell’esercizio delle loro funzioni» nelle disposizioni codice penale “denoti sempre un rapporto di mera coincidenza temporale e non esprima anche l’idea di una condizionalità strumentale tra l’esercizio in senso generico delle funzioni e la condotta lesiva”. Tutto questo in ragione del fatto che la legislazione penale “in tanto fa di tale requisito un elemento costitutivo del particolare reato, in quanto l’esercizio delle funzioni conferisce all’agente un mezzo lesivo tipico” .
Altri rilievi critici concernono due questioni peculiari. Da un lato, la eccessiva restrittività della tesi del Chiarotti, dal momento che essa esclude dal novero dei reati ministeriali quelli di corruzione e concussione – “reati tradizionalmente considerati ministeriali” –, potendo tali fattispecie realizzarsi presso luoghi privati al di fuori di qualsiasi contestualità cronologica con l’attività funzionale. Dall’altro, per il fatto che la suddetta tesi si mostra troppo estensiva nelle sue conseguenze logiche; sicché in forza delle sue premesse si potrebbe giungere “alla conclusione, palesemente ridicola, di attribuire il crisma della ministerialità al reato di violenza carnale consumato dal Ministro all’interno del suo ufficio ai danni di una signora che stava ricevendo”, nonché all’omicidio colposo commesso dal Ministro ai danni di un dipendente del suo dicastero, per il solo fatto della sussistenza di un nesso di coincidenza temporale con l’esercizio delle funzioni. […]
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Di seguito si riporta il sommario dei saggi: 1. La qualificazione dei reati ministeriali prima e dopo la revisione costituzionale del 1989 2. Cenni sulla procedura di attivazione della responsabilità penale dei membri del Governo ante riforma. Le ragioni della revisione 3. L’attuale procedimento per i reati ministeriali. Il problema della conflittualità tra organi parlamentari e organi della giurisdizione