La disciplina con la quale, a partire dalla deliberazione dello stato di emergenza nazionale del 31 gennaio 2020, è stata gestita finora la pandemia da Sars-CoV-2 è apparsa, da subito, riconducibile a diversi – e non facilmente conciliabili – modelli normativi: quello offerto dal Codice di protezione civile, quello delle ordinanze contingibili e urgenti previste dall’art. 32 della legge sul Servizio sanitario nazionale e, infine, un terzo modello consistente nell’uso di decreti-legge e d.p.c.m.
Una prima modalità di intervento è quella consentita proprio dalla deliberazione dello stato di emergenza «di rilievo nazionale», prevista dall’art. 24 del d.lgs. n. 1/2018 (Codice della protezione civile), il quale stabilisce, al primo comma, che il compito di adottarla è del Consiglio dei ministri, il quale, nella medesima delibera, fissa la durata dello stato di emergenza e ne determina l’estensione territoriale «con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi». Il Consiglio autorizza, inoltre, l’emanazione delle ordinanze di protezione civile, individua le prime risorse finanziarie da destinare all’avvio delle attività di soccorso e assistenza alla popolazione nonché gli interventi più urgenti, nelle more della ricognizione in ordine agli effettivi fabbisogni, e, infine, autorizza la spesa nell’ambito del Fondo per le emergenze nazionali.
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Sommario: 1. I diversi modelli normativi ai quali si è fatto ricorso nella gestione dell’emergenza sanitaria. – 2. La deliberazione dello stato di emergenza come «punto di intersezione» tra i d.p.c.m. e le ordinanze di protezione civile, secondo la sent. n. 198/2021. – 3. «Stato di emergenza», «stato di necessità» e «stato di eccezione»: l’horror vacui della democrazia costituzionale.