Ringrazio davvero il Professor Fulco Lanchester per il suo invito a tenere la relazione introduttiva a questo seminario di studi da lui organizzato. Ma accanto al mio ringraziamento personale vorrei esprimere, in nome e per conto della “categoria”, la gratitudine per la funzione di stimolo alla riflessione ed al dibattito pubblico su temi emergenti dalla stretta attualità politico-costituzionale che egli ha spesso esercitato attraverso iniziative come queste. Senza tornare troppo indietro nel tempo, rammento le tavole rotonde allestite prima e dopo la storica sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale sulla legge elettorale.
La “curiosità”, associata alla capacità organizzativa, è dote che lo contraddistingue e che egli mette, per dir così, al servizio della comunità degli studiosi, costringendola a confrontarsi e a discutere nell’immediatezza delle cose. Ne esce sempre – almeno questa è la mia esperienza – una discussione aperta, ricca ed articolata che offre la possibilità di aprire uno squarcio e riflettere sui nodi della matassa, da noi talvolta assai aggrovigliata, che lega divenire politico e diritto costituzionale. Non ho motivo di dubitare che anche quest’oggi sarà così. […]
La questione che ha animato il dibattito pubblico in questi giorni, intorno alla quale siamo chiamati a riflettere, è quella della possibile riduzione parziale o frammentazione delle richieste di referendum ex art. 138 Cost. dinanzi ad operazioni di mutamento della Carta costituzionale di tipo organico o a largo spettro, in modo da sottoporre alla valutazione popolare parti di un’unica legge di revisione in luogo di una opzione unica sull’intero testo approvato dalle Camere. Ciò al fine di garantire l’esigenza della omogeneità del quesito referendario, secondo la nota elaborazione giurisprudenziale della nostra Corte costituzionale che, sia pur nelle vesti di giudice dell’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo, oramai da quasi quarant’anni (a partire dalla celebre sentenza n. 16 del 1978) postula l’esistenza di una matrice razionalmente unitaria del tessuto normativo, su cui il corpo elettorale deve pronunziarsi in modo dilemmatico, quale condizione necessaria per la libera espressione del voto. L’elettore infatti, posto davanti ad un eterogeneo complesso di atti o disposizioni afferenti ad oggetti disparati, si troverebbe nella situazione di non poter liberamente scegliere fra l’opzione favorevole e quella contraria, giacché – come si legge nella ricordata pronunzia – sia «che i cittadini siano convinti dell’opportunità di abrogare certe norme ed a questo fine si rassegnino all’abrogazione di norme del tutto diverse, solo perché coinvolte nel medesimo quesito, pur considerando che meriterebbe mantenerle in vigore; sia che preferiscano orientarsi verso l’astensione, dal voto o nel voto, rinunciando ad influire sull’esito della consultazione, giacché l’inestricabile complessità delle questioni (ciascuna delle quali richiederebbe di essere diversamente e separatamente valutata) non consente loro di esprimersi né in modo affermativo né in modo negativo; sia che decidano di votare “no”, in nome del prevalente interesse di non far cadere determinate discipline, ma pagando il prezzo della mancata abrogazione di altre norme che essi ritengano ormai superate (e vedendosi impedita la possibilità di proporre in questo senso ulteriori referendum, prima che siano trascorsi almeno cinque anni, data la preclusione disposta dall’art. 38 della legge n. 352 del 1970)», l’effetto che comunque si produrrebbe sarebbe, per l’appunto, quello della frustrazione della loro libertà di voto. […]
Scarica il testo completo in formato PDF