I mesi centrali dell’anno vedono il consolidamento di un sistema di potere con al centro il partito di destra “Diritto e giustizia” (PiS), vincitore delle elezioni del 2015. Non è però un consolidamento pacifico e incontroverso, poiché la linea del partito, lungi dall’ammorbidirsi è sempre più quella di una rottura radicale con i precedenti otto anni di governo della Piattaforma civica, ma anche di una contestazione di oltre un quarto di secolo di storia recente della Polonia libera. Sia con il continuo martellamento in merito all’incidente aereo di Smolensk del 2010 – in merito al quale le risultanze di una precedente commissione di inchiesta sono messe in discussione dai lavori di una nuova sottocommissione, che dovrebbe dimostrare la tesi dell’attentato – sia con il tentativo di rielaborazione e scrittura di una nuova ‘politica storica’, riferita al passato recente e a quello remoto, il partito di governo intraprende il tentativo di forgiare nientemeno che una coscienza nazionale ex novo, nella quale l’autentica fine del socialismo in Polonia sarebbe avvenuta non nel 1989, con le elezioni semilibere seguite alla Tavola rotonda, dalle quali scaturì il primo governo del dopoguerra a guida non comunista, bensì appunto solo nel 2015, con la doppia vittoria di Andrzej Duda e del PiS, nelle elezioni presidenziali e legislative (se si eccettua la parentesi della presidenza di Lech Kaczyński tra il 2005 e il 2010).
Così la controversia iniziatasi sul finire del 2015 sul Tribunale costituzionale diventa solo uno tra i tanti aspetti conflittuali di un cambio di rotta, su cui è accesa l’attenzione dell’UE che ha già in corso una procedura per violazione dei principi dello stato di diritto, con ipotesi di violazione dell’art. 7 TUE. La preoccupazione cresce non solo per quell’argomento, su cui ci si domanda se non si stia degenerando da una crisi a un vero colpo di stato costituzionale, ma anche per argomenti come la tutela della privacy, già limitata molto oltre la media europea in tema di corrispondenza telefonica e informatica – sotto il pretesto della prevenzione del terrorismo -, i media pubblici, l’indipendenza della magistratura, non solo quella inquirente – ormai già ampiamente assoggettata all’esecutivo – ma persino quella giudicante, su cui sono preannunciati interventi di condizionamento giustificati dalla necessità di svecchiarne il corpo e di eliminare alcune patologie.
Per quanto riguarda il Tribunale costituzionale, la contrapposizione tende a cronicizzarsi, senza che si possa registrare, da un lato, un vero successo dell’opposizione, ma, dall’altro, neanche un pieno compimento del disegno avviato l’anno precedente dalla nuova maggioranza. Lo stesso partito di governo, infatti, ha dovuto almeno in parte correggere la rotta, dopo la sentenza K 47/15 di marzo, che pure si è ostinato a non riconoscere. Mentre si è voluta dare l’impressione di una maggiore disponibilità al confronto con le opposizioni, è stato avviato e compiuto, di nuovo in poche settimane, l’iter di una legge sul Tribunale costituzionale che non è più una novella parziale, come quelle approvate negli ultimi mesi del 2015, ma che si pone come disciplina innovativa ex novo, pur volendo richiamare l’impianto fondamentale del testo della vecchia legge del 1997, già abrogata nel giugno 2015. Nel corpo di tale legge, tuttavia, sono inserite alterazioni ai contenuti di quel testo che, seppure non così abnormi come quelle delle precedenti iniziative, tuttavia lasciano intendere come la maggioranza seguiti a temere che il Tribunale possa porsi come ostacolo imbattibile alle proprie innovazioni legislative. La legge del 22 luglio viene infatti per l’ennesima volta portata al giudizio del Tribunale costituzionale, secondo le modalità che di seguito sono esposte, che una volta di più non sono riconosciute. Rischia così di innescarsi un perpetuum mobile di cui non è data vedere l’interruzione, salvi pericoli peggiori. […]