Il tema del divieto di mandato imperativo e della democrazia rappresentativa occupa il dibattito politico e le tavole degli studiosi da diverso tempo, specie da quando il Movimento Cinque Stelle lo ha prepotentemente posto ad uopo di una delle norme base del loro “Codice di comportamento eletti Movimento 5 Stelle in Parlamento”, che così recita in merito all’espulsione dal gruppo del M5S: «I parlamentari del M5S riuniti, senza distinzione tra Camera e Senato, potranno per palesi violazioni del Codice di Comportamento, proporre l’espulsione di un parlamentare del M5S a maggioranza. L’espulsione dovrà essere ratificata da una votazione on line sul portale del M5S tra tutti gli iscritti, anch’essa a maggioranza». Norma che appare palesemente anticostituzionale, contraddicendo la lettera di quell’art 67 («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») che viene dalla riflessione teorica datata XVIII secolo, grazie alla quale da prerogativa regia diventa garanzia di funzionamento dell’Assemblea. In realtà il tema del divieto del mandato imperativo non assurge ad argomento critico solo nella XVII legislatura, perché, come ben sottolinea Paolo Armaroli, è stato anche il filo conduttore della Presidenza Fini durante la legislatura precedente. Il Professore ed ex deputato An nel suo ultimo lavoro del 2013, “Lo strano caso di Fini e il suo doppio nell’Italia che cambia”, edito da Mauro Pagliai Editore, rintraccia infatti le sottese o palesi, sicuramente continue, discrasie ed incongruenze della travagliata presidenza Fini. Armaroli si ripromette così di rintracciare tutte le “stranezze” di questa appena trascorsa legislatura guardando allo scranno più alto di Montecitorio, dove il Presidente Fini si è seduto nel 2008, come esponente di spicco dell’appena costituito Popolo della Libertà, fino al 2013, quando si alzò come capolista del nuovo partito Futuro e Libertà candidato alla Camera dei Deputati.
Non a caso il sottotitolo del libro, «Tutte le anomalie della XVI legislatura e oltre», incuriosisce il lettore sul contenuto del volume dal cui indice, infatti, si scopre contenere, nella rima parte, un esaustivo ed interessante excursus sulla travagliata presidenza della Camera della XVI legislatura e sulle sue anomalie, e si intuisce subito dai titoli dei paragrafi che tutta la seconda parte è invece dedicata al delicato tema del divieto del mandato imperativo e delle dimissioni dalla carica di Presidente, per poi chiudere con un ultimo capitolo sulla nuova legislatura, la XVII, dall’inequivocabile titolo: «La neonata legislatura: dal transitorio al precario». In questo senso l’Autore sembra aver bene calibrato la divisione soggettiva dei capitoli, dedicando alla parte iniziale i primi tre capitoli, alla seconda i restanti tre, per poi chiudere il tutto con il settimo capitolo che svolge una funzione di liaison con la legislatura corrente, ma soprattutto con la critica situazione in cui il sistema politico (e partitico) italiano si è venuto a trovare dopo le elezioni politiche del 24-25 febbraio scorso.
Proprio all’incipit del volume Armaroli scrive chiaramente del suo intento di rintracciare le “stranezze” della legislatura 2008-2013, ma soprattutto le sue “doppiezze”, le ambiguità di un quinquennio in cui la maggioranza più ampia della storia repubblicana, quella uscita dalle urne del 2008, si è sfaldata progressivamente come l’ardesia; in cui il governo Berlusconi si è dimesso senza essere sfiduciato; in cui si è formata (come lo stesso Monti ha riconosciuto) una strana maggioranza su accordo dei leader dei tre maggiori partiti esistenti allora, Alfano, Bersani, Casini, la cosiddetta ABC; in cui il leader nominale del PdL, in diretta televisiva, in sede di dichiarazioni di voto finale sul disegno di legge di conversione del decreto legge 10 ottobre 2012, n.174, dichiara di voler «staccare la spina al governo Monti» (pp.10-11), causando una crisi ministeriale prima e lo scioglimento anticipato poi, ben sapendo che i dati dei sondaggi davano il suo partito in netto svantaggio.
Efficace quindi il paragone dell’Autore con il capolavoro di Stevenson, in cui Fini incarna il protagonista principale, perché il suo teorema non sta in piedi: «il presidente della Camera dice e ripete all’infinito che come arbitro dei lavori parlamentari è tenuto alla più assoluta imparzialità […], ma aggiunge che fuori dal Palazzo non gli si può negare il diritto di dire la sua» (pag. 27). Certo la prima parte dell’assunto è inattaccabile, ma la seconda, come il diritto parlamentare dimostra, non sta in piedi. Ma seguiamo il ragionamento dell’Autore: Armaroli porta a dimostrazione della parziale inesattezza della tesi appena sollevata diversi argomenti, partendo dall’articolo 10 del regolamento della Camera dell’8 maggio 1848 che, al secondo comma, stabilisce che il Presidente non può prendere la parola durante la discussione tranne che «presentarne lo stato, e ricondurla alla questione nel caso che se ne sia allontanata» aggiungendo che «se egli desidera discutere è d’uopo che lasci lo stallo presidenziale, né può riprenderlo se la discussione sulla materia vertente non è terminata». Stessa disposizione si ritrova nel successivo regolamento della Camera del 24 novembre 1868, che all’articolo 8 tace sulla questione, così come i successivi regolamenti del 1° giugno 1888 e del 1° luglio 1900. Nel silenzio di questi, e se vero che ex facto moritur ius, si può dedurre quindi che «il presidente di assemblea non è legittimato, una volta abbandonato il proprio seggio, a esprimere opinioni sulle questioni all’ordine del giorno» (pag. 28). Infatti se nel diritto privato il silenzio può essere interpretato come assenso, nel diritto pubblico è esattamente il contrario. […]