Se è vero che la resilienza è una delle caratteristiche del popolo inglese, Theresa May in questi ultimi mesi del 2018 ha dato prova di esserne l’impersonificazione. La Premier, infatti, è riuscita a rimanere in office, nonostante le ripetute crisi e le forme di opposizione che ha dovuto fronteggiare: quella ufficiale del partito laburista, che tuttavia non sempre ha espresso una linea coerente sulla Brexit; quella interna al suo partito, che l’ha accusata di condurre una politica a tratti ambigua e l’ha sottoposta a voto di sfiducia; quella del Governo scozzese, che le rimprovera di voler cancellare 20 anni di devolution; quella del DUP, sul cui appoggio esterno si fonda la maggioranza ai Comuni e che è contrario alla soluzione trovata per l’Irlanda del Nord nell’accordo di recesso. Il primo colpo nei confronti della Premier in questi mesi è stato inferto dalla bocciatura dello Chequers plan (il progetto sulla Brexit approvato dal Governo a luglio) al vertice di Salisburgo del 20 settembre, durante il quale la controparte europea non ha accolto la proposta di controllo sulle merci al confine tra Irlanda del Nord e Repubblica irlandese, perché giudicato impossibile da realizzare. Come noto, tale progetto aveva attirato le critiche anche di molti esponenti dei Tories – in particolare di quelli euroscettici che si riconoscono nell’European Research Group (ERG) – e aveva portato alle dimissioni di alcuni ministri.
Il principale tema di scontro per la definizione dell’accordo di recesso in questi mesi è stato proprio quello del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. Dopo il fallimento anche del successivo incontro del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre – incontro che, secondo l’originaria tabella di marcia, avrebbe dovuto essere risolutivo -, finalmente il 13 novembre i negoziatori britannici ed europei sono riusciti a definire una bozza di accordo, approvata il giorno seguente dal Governo britannico. Un successo per la Premier immediatamente accompagnato da una nuova crisi, dato che il 15 novembre altri 4 componenti dell’esecutivo (il Brexit Secretary Dominic Raab – sostituito, poi, da Stephen Barclay -, la Work and Pensions Secretary Esther McVey, la junior Brexit minister Suella Braverman e il ministro per l’Irlanda del Nord, Shailesh Vara) si sono dimessi per esprimere il loro dissenso. […]