In questi mesi è apparso particolarmente evidente il carattere asimmetrico dell’assetto territoriale britannico. Come noto, infatti, fin dall’introduzione della devolution nel 1998, il governo Blair aveva conferito alle assemblee di Scozia, Galles ed Irlanda del Nord poteri diversi, in considerazione delle peculiari realtà presenti nei singoli territori, e aveva lasciato fuori dal progetto devolutivo l’Inghilterra. Nel corso di questi anni il cammino della devolution non si ė mai interrotto, anche se ha seguito percorsi diversi per ogni nazione del Regno. Così la Scozia – fin dalle origini dotata di potestà legislativa primaria – con lo Scotland Act 2012 ha ottenuto il conferimento di nuove competenze, anche in materia fiscale, è riuscita a esprimersi sulla questione dell’indipendenza nel referendum del 18 settembre 2014 e ora attende – non senza polemiche – l’approvazione dello Scotland Bill che darà attuazione all’accordo della Commissione Smith.
Dal canto suo il Galles, grazie al modello fornito dalla Scozia, dopo anni di esercizio di potestà legislativa secondaria, dal 2011 può approvare proprie leggi e, stando agli impegni di Cameron, vedrà ampliate i propri campi di intervento e adotterà un nuovo modello di distribuzione di competenze, ispirato a quello dei poteri residui, attualmente presente in Scozia e nel Nord Irlanda.
La questione inglese è, poi, al centro degli interessi del nuovo esecutivo, il quale prevede sia di incrementare i poteri degli enti locali, introducendo anche una ristrutturazione territoriale, sia di modificare le regole procedurali di Westminster per approvare le leggi relative alla sola Inghilterra. Il progetto di riforma governativo, però, si è scontrato, nel mese di luglio, con una forte opposizione parlamentare ed è stato rinviato ai prossimi mesi.
Nonostante i naturali contrasti politici tra maggioranza e opposizione, in questa legislatura caratterizzata da una consistente presenza di deputati del partito nazionalista scozzese, è certo che il nuovo governo Cameron, uscito dalle elezioni di maggio, ha comunque i numeri per fare approvare, nel corso dei prossimi cinque anni, le sue riforme territoriali.
Del tutto diversa, invece, è la situazione dell’Irlanda del Nord. Le tredici contee che la compongono hanno, in questi anni, conosciuto un percorso particolare. Come noto l’accordo del Venerdì Santo del 1998 ha ripristinato l’assemblea di Stormont, ma il profondo antagonismo tra i partiti che avrebbero dovuto governare insieme ha avuto la conseguenza di rendere particolarmente difficile l’ordinario funzionamento del sistema. Nel 2002 le istituzioni nord irlandesi sono state sospese e la loro restaurazione nel 2007 non ha posto fine ai contrasti tra le due parti.
Gli equilibri interni al governo sono sembrati particolarmente precari nell’ultimo anno anche se lo Stormont House Agreement raggiunto nel dicembre scorso, dopo mesi di lunghe trattative, aveva fatto ben sperare in una possibile stabilità. L’accordo riguardava 75 punti, tra i quali rientravano sia temi simbolici (esposizione della bandiera britannica e di quella irlandese, le parate, la gestione dell’eredità dei troubles), sia questioni di natura economica. Uno dei punti di tale accordo prevedeva l’approvazione da parte del parlamento di Westminster di una legge che concedesse a governo e assemblea nord irlandesi il potere di modificare l’importo della corporation tax a partire dall’aprile 2017, a condizione che essi dimostrassero solidità economica e approvassero il Welfare Reform Bill in discussione a Stormont. La legge (il Corporation Tax (Northern Ireland) Act 2015) ha ricevuto il royal assent nel mese di marzo, ma l’assemblea nord irlandese – il 27 maggio – non è riuscita ad approvare il Welfare Reform Bill, a causa dell’opposizione del Sinn Fein e del SDLP. […]
Scarica il testo completo in formato PDF