Volgendo lo sguardo a ritroso, si nota come prima del 1865 erano i soli Tribunali del contenzioso amministrativo, organi interni alla p.a., a fornire tutela ai cittadini nei confronti degli atti amministrativi1. Tali organi erano collegiali, aventi natura squisitamente amministrava ed inseriti nella organizzazione del potere esecutivo. Siffatti collegi, ancorché forniti di qualche garanzia di indipendenza di giudizio, di “tribunale” avevano soltanto il nome, visto che, in realtà, essi erano composti da funzionari dei vari Ministeri competenti per materia, i quali – come è facile intuire – quasi sempre si “appiattivano” alle direttive dei loro superiori gerarchici; onde non esisteva, praticamente, la benché minima posizione di terzietà rispetto alle posizioni delle parti comunque coinvolte nel giudizio2.
Il processo innanzi ad essi, inoltre, era regolamentato da norme a dir poco rudimentali, se non addirittura rozze: si pensi, a tal proposito, che nella maggioranza dei casi, il contraddittorio si realizzava in maniera del tutto imperfetta, e l’effettiva efficacia delle determinazioni in concreto assunte era considerata, a tacer d’altro, assai meno importante rispetto a quelle che avrebbero potuto rivestire le pronunce di un organo giurisdizionale super partes3. All’indomani dell’Unità entrò in vigore la legge 2248 del 1865, all. E (c.d. legge abolitiva del contenzioso amministrativo); tale legge rappresentò un’importante sterzata del Legislatore. Difatti, in virtù della stessa: a) i tribunali del contenzioso amministrativo furono soppressi; b) le questioni relative ai diritti soggettivi vennero affidate ai giudici ordinari che, tuttavia, nell’esercizio della loro funzione, incontravano dei limiti, in quanto giudicavano nei confronti della Pubblica Amministrazione; ma, come questa non doveva “insinuarsi” nella sfera del potere giudiziario, così a quest’ultimo era precluso un intervento penetrante nella sfera del potere esecutivo. […]