Quando si evoca la questione del metodo nell’ambito dell’insegnamento del diritto pubblico si chiama anzitutto in causa, senza voler sottovalutare le ulteriori angolazioni, il tema delle modalità di lettura della nostra costituzione e dei suoi processi evolutivi. Si può ricordare a questo proposito una breve, ma densa nota che figura nella edizione del 1975 delle Istituzioni di diritto pubblico di Mortati in cui viene argomentato che l’insegnamento in questione, considerata la posizione di centralità che in esso deve rivestire la costituzione in ragione della forza diffusiva dei suoi principi nei diversi campi dell’esperienza giuridica, avrebbe dovuto denominarsi Istituzioni di diritto costituzionale; una proposta questa che non mi risulta abbia avuto seguito, ma che conserva ancora intatto il suo significato.
Tornando al punto, alle origini della nostra vicenda costituzionale ha innegabilmente prevalso l’esigenza di assimilare le nuove disposizioni costituzionali alle altre norme giuridiche; ciò allo scopo, in forza dell’instaurazione di un rapporto di omogeneità anche sul versante ermeneutico, di rendere più fluido l’ingresso della costituzione nella sfera applicativa, evitando il rischio della dislocazione della superiorità costituzionale in una dimensione puramente simbolica che la stessa teorica originaria delle norme “programmatiche” sembrava pericolosamente preconizzare.
In definitiva, il dibattito sulla applicabilità o meno alla costituzione dei canoni dettati dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile va correlato a questa preminente esigenza: difatti, che anche quando si è propugnata in linea teorica la “signoria” della Corte costituzionale sui metodi interpretativi, si è al contempo segnalato che “nel sottolineare la specificità della interpretazione della costituzione rispetto alla interpretazione delle altre leggi si corre un pericolo: quello di svalutarne l’efficacia normativa, fino al punto di affermare, come talora è stato fatto, il carattere non cogente ma solo indicativo delle sue norme”.
È significativo il fatto che anche chi aveva portato alla luce il deficit di determinatezza talvolta riscontrabile negli enunciati costituzionali e della loro conseguente attitudine ad ospitare plurali possibilità di inveramento, riteneva comunque di dover assumere “che i metodi tradizionali di interpretazione del diritto sono applicabili anche per l’interpretazione costituzionale, perché ove vengano utilizzati in modo adeguato appaiono idonei a far comprendere il significato e il valore politico dei precetti ai quali si rivolgono”. Per di più, avallare questo atto di fiducia avrebbe concorso ad assicurare la progressiva assimilazione nel sistema del nuovo istituto del controllo di costituzionalità dal momento che “una maggiore libertà di determinazioni, quale potrebbe attribuirsi un tribunale di garanzia costituzionale di più antica esperienza e tradizione, avrebbe forse potuto nuocere alla sua autorità, e sarebbe stata incompatibile con il carattere che le è proprio, di organo che deve operare secondo criteri giurisdizionali”. […]
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Di seguito si riporta il sommario del saggio: 1. La Superiorità della Costituzione e la sua appartenenza alla dimensione giuridica 2. La funzione ordinatrice della Costituzione tra sistema delle fonti e rapporti politico sociali 3. Il ritorno della “specialità” della Costituzione 4. Prescrittività costituzionale ed effettività