Questo volume, indubbiamente, assume una prospettiva originale. Non che manchino gli studi sul tema dei rapporti tra sistemi elettorali e tutela delle minoranze linguistiche, ma rispetto alla massa di scritti che sono stati dedicati ad altri aspetti del sistema elettorale, sia in senso ampio che stretto, v’è indubbiamente una sproporzione. Il lavoro che oggi commentiamo viene a colmare una lacuna, mostrando quali sono i collegamenti tra la strutturazione dei sistemi elettorali e le tecniche di tutela delle minoranze linguistiche.
Ho letto con molto interesse questo libro, ma in una discussione che da un libro, appunto, muove non si può tenere conto di tutte quante le sollecitazioni che l’autore ha determinato: fatalmente, egli resta deluso dalle reazioni che raccoglie. Bisogna considerare, tuttavia, che questo è solo un primo approccio al suo scritto.
Personalmente, mi sono soffermato sostanzialmente su tre questioni: quella delle premesse, quella delle conclusioni la questione delle conclusioni; e quella della morale che esce da questo volume. Quanto alle premesse, ne ho isolate in particolare due, d’ordine teorico. La prima (che ha un taglio dommatico) è allo stesso tempo di carattere sociologico e di carattere giuridico: che cosa si intende per minoranza linguistica? Cosa per partiti etno-regionali? Cosa per partiti regionali o regionalisti? Che rapporto hanno questi partiti con le minoranze?
La tesi del Senatore Peterlini è che (cito testualmente la pag. 53) “rispetto ai partiti etno-regionali, ai partiti regionali o regionalisti manca il carattere etnico o linguistico”: ciò determinerebbe la distinzione tra queste due grandi categorie di partiti. Effettivamente, sul piano teorico e astratto è esattamente così, ma ho l’impressione che ci sia una sorta di effetto di trascinamento del modello del partito etno-regionale sul partito del modello non etno-regionale, nel senso che anche i partiti regionali o regionalisti, come appunto li chiama Peterlini, che – pure – non nascono come etno-regionali, tendono in qualche modo a costruirsi una sorta di memoria etnica, e cioè a far sì che il loro radicamento sia collocato in una tradizione e in un patrimonio comune molto simile a quello dei partiti etno-regionali. La parabola della Lega, da questo punto di vista, mi sembra significativa. Vera, dunque, la premessa sul piano astratto, ma credo sia anche vero che tra le due categorie vi sia un’osmosi, dovuta al fatto che sul mercato politico l’offerta dei partiti etno-regionali esercita un richiamo più robusto di quella dei partiti regionali o regionalisti.
La seconda premessa sulla quale mi soffermerei è quella – data un po’ per scontata dall’autore – che la tutela delle minoranze linguistiche, per ragioni di principio di rango costituzionale, dovrebbe essere proiettata anche nelle sedi della rappresentanza. E’ così? In effetti il testo costituzionale non è particolarmente generoso da questo punto di vista, perché l’articolo 6 della Costituzione ci dice solo che la Repubblica tutela le minoranze linguistiche con apposite normative, ma non indirizza chiaramente verso questo particolare sbocco. Il caso della regione Trentino Alto Adige è evidentemente diverso, perché le norme statutarie hanno una cogenza peculiare e ci danno indicazioni più nette. Purtuttavìa, ho l’impressione che, al di là del dato offerto più specificatamente dalla disciplina delle minoranze del Trentino Alto Adige, la posizione di Peterlini sia corretta e che, effettivamente, una proiezione sul terreno della rappresentanza delle minoranze linguistiche e della loro tutela possa ritenersi in qualche modo implicata dalla Costituzione. […]