Simone Ferraro, Recensione a S. Bartole, “La Costituzione è di tutti”, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 198

Esistono testi che, per una sorta di eterogenesi dei fini, superiore alle stesse intenzioni dei loro autori, sono destinati a sprigionare un carico di divisività tale da farli assurgere a veri e proprio casi nel panorama editoriale ed accademico. Questo è stato sicuramente il destino dell’opera del Bartole, Interpretazione e trasformazioni della Costituzione repubblicana, che nel 2004, ha preceduto il testo oggetto di questa recensione, e del quale, il presente, La Costituzione è di tutti, rappresenta, a giudizio dello scrivente, un tentativo di mediazione tra le sue diverse ed opposte interpretazioni; mediazione realizzata tramite l’approfondimento delle tematiche le cui criticità hanno maggiormente, da un lato, scatenato il rovello polemico dei detrattori, e dall’altro, rafforzato la convinzione dei suoi sostenitori a farsi tetragoni delle loro posizioni.

Non è nelle intenzioni di questo breve elaborato fornire una rappresentazione esaustiva di questa contrapposizione dottrinale ed accademica; al contrario, la speranza è quella, assumendo l’immeritato ruolo, tra “Montecchi” e “Capuleti” del “Mercutio”, di dare conto delle intenzioni ireniche dell’autore, senza dover condividere lo sfortunato destino del personaggio Shakespeariano. Volontà riappacificatrice, la quale, nulla cedendo alle argomentazioni opposte all’opera del 2004, è finalizzata al tentativo di costruzione di un linguaggio condiviso tra gli operatori del diritto, definendo un contesto alla discussione, tale da rendere possibile l’edificarsi di una casa comune sia per il mondo accademico che per le istituzioni.

I testi giuridici hanno una singolare peculiarità, il loro oggetto di studio è il linguaggio stesso del legislatore, sovente, a causa di questa condizione, numerose sono le difficoltà che si frappongono al raggiungimento di un glossario comune; difficoltà che la sovrabbondanza di interventi legislativi e di pronunce, stratificatisi nel corso del tempo, non fa che aumentare, rendendo impervia la stessa ricerca dei dati essenziali, necessari alla comprensione di un sistema normativo in continua evoluzione. Conseguenza di ciò è la non infrequente scelta degli autori di orientarsi alla realizzazione di riduzioni manualistiche; ed è quindi proprio nella volontà di ricercare un linguaggio originale, non autoreferenziale  ed inclusivo che va individuato il merito maggiore di quest’opera, nel suo rapportarsi con le esigenze dei suoi lettori.

Dopo aver dato atto dell’apertura verso un potenziale ed auspicabile concorso di saperi, per l’evoluzione all’interno di questa scienza argomentativa, attraverso il dialogo, di un discorso giuridico che non assecondi, ma che rappresenti la cultura dei nostri tempi, semplificandone, per quanto possibile, nozioni giuridiche e concettuali basilari attraverso un “discorso sui discorsi”, ed un uso strutturato del linguaggio,  proseguo con l’analisi dei singoli capitoli.

L’inizio di questo lavoro è dedicata ad un aggiornamento, attraverso una sua accurata analisi, dell’esperienza dello Statuto Albertino; le conclusioni a cui nel corso di queste pagine perverrà l’autore vengono sostenute da un iniziale confronto tra l’applicazione dei principi statutari nella giurisprudenza del periodo, ed il contributo dato in quegli anni dalla letteratura costituzionalistica francese, vera schola di tutte le esperienze costituzionali del XIX secolo per lo studio della “contrapposizione fra rilevanza politico-morale ed efficacia giuridica” (p. 18) dei principi enunciati all’interno delle Costituzioni nazionali; il confronto è finalizzato ad evidenziare come il dibattito d’oltralpe, nonostante riguardasse prevalentemente, come dimostrato da autori come Paul Bastid, non la rilevanza delle disposizioni delle Carte costituzionali, ma delle Dichiarazioni dei Diritti ad esse allegate, avesse inciso sull’humus culturale italiano, favorendo chiavi di lettura volte a porre in rilievo come le garanzie offerte dal sistema parlamentare, se lette sotto la lente della loro interpretazione storica, potessero rappresentare validi contrappesi, sia alle ragioni della logica giuridica, che al portato di un consolidato sistema di giurisprudenza amministrativa. Le positive ed innovative intenzioni di autori come Léon Duguit, per il superamento del mero portato dichiarativo di questi principi, portato originato dal venir  essi considerati dalla dottrina prevalente, rappresentata agli inizi del secolo scorso dalle posizioni di Adhèmar Esmein, unicamente come un accertamento di norme preesistenti, prive di “portata normativa e giuridicamente non obbligatori” (p. 19), avrebbe quindi creato le premesse per una possibile “doppia utilizzazione dei principi statutari” (p. 21). […]

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