Nella maggior parte dei paesi europei la definizione di una efficace politica migratoria capace di favorire la gestione di flussi migratori dalle proporzioni epocali che premono sui confini degli Stati membri costituisce, allo stato attuale, una delle priorità che i governi nazionali di concerto con le istituzioni dell’Unione si propongono di perseguire. L’individuazione di strumenti normativi, idonei a disciplinare organicamente e coerentemente un fenomeno noto per la sua complessità, costituisce anche oltreoceano una delle sfide fondamentali che l’amministrazione Obama si trova a dover affrontare.
Il momento non è dei migliori per il Presidente statunitense. Le elezioni di mid-term del novembre scorso si sono risolte in una pesante sconfitta per i democratici che hanno perso il controllo di entrambi i rami del Legislativo; si è così venuto a realizzare il caso del “governo diviso”, in cui maggioranze diverse controllano il Congresso e l’Esecutivo. L’esito della consultazione elettorale ha inaugurato una nuova fase politica, nell’ambito della quale Obama è chiamato ad affrontare gli ultimi anni del suo secondo mandato da “anatra zoppa” (lame duck), senza poter contare sull’appoggio di una maggioranza congressuale a lui favorevole.
La corsa verso le presidenziali del 2016 si preannuncia, dunque, per i democratici in salita. Sia sul piano internazionale che su quello interno, le sfide sono importanti: prima fra tutte quella posta dalla riforma dell’immigrazione annunciata dal Presidente a giugno e ribadita all’indomani della sconfitta elettorale.
La riforma dell’immigrazione ha riaperto il confronto tra governo federale e i governi degli Stati membri che non hanno mancato di intraprendere azioni legali presso le corti federali degli Stati contro i provvedimenti varati dal Presidente dietro lo scudo della doctrine of “prosecutorial discretion”.
Il 16 febbraio 2015 il giudice della Corte federale del Texas, Andrew Hanen, ha sospeso l’executive action per mezzo della quale il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, intendeva tutelare dal rischio di espulsione circa cinque milioni di immigrati irregolari presenti nel Paese, pronunciandosi nel caso State of Texas et al. v. United States et al., promosso dallo Stato del Texas e dai rappresentanti di altri 25 Stati dell’Unione.
L’ordinanza consta di 123 pagine di cui circa la metà dedicate al riconoscimento della legittimità a promuovere il giudizio. Solo ad uno stato di frontiera – il Texas –viene riconosciuta la legittimità ad agire dinanzi alla corte federale per impedire l’entrata in vigore, prevista per il 18 febbraio 2015, dei provvedimenti promossi dall’esecutivo. Lo standing è stato riconosciuto in ragione degli oneri finanziari di cui lo Stato si è fatto carico e di cui continuerà a farsi carico per far fronte alla massiccia presenza di immigrati clandestini.
Il ricorso è stato promosso sulla base della presunta non conformità delle executive actions ai requisiti dell’ Administrative Procedure Act (APA) del 1946. La corte federale del Texas è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità del programma DAPA (Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents) e sulla legittimazione del Dipartimento per la Sicurezza interna (DHS) ad esercitare discrezionalmente il potere di attuare il suddetto programma. Il giudice si è pronunciato solamente sul punto procedurale, sostenendo che i provvedimenti sono stati attuati in violazione dei requisiti procedurali minimi descritti dall’ APA, in base alla quale il governo deve procedere a pubbliche consultazioni prima di attuare una nuova politica o un programma. […]