Nel 1814 un giovane avvocato con velleità poetiche, Francis Scott Key, ispirandosi alle vicende della guerra anglo-americana del 1812 ed in particolare al bombardamento di Fort McHenry, scrisse “The Star-Spangled Banner”. In seguito all’approvazione di una risoluzione del Congresso, firmata dal Presidente Herbert Hoover il 3 marzo del 1931, “The Star-Spangled Banner” sarebbe divenuto l’inno nazionale degli Stati Uniti. Nel corso degli anni il momento dell’intonazione dell’inno nell’ambito di cerimonie ufficiali è divenuto spesso l’occasione per manifestare dissenso nei confronti della politica nazionale. Il caso più celebre è senz’altro quello degli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos i quali, all’intonazione dell’inno nazionale, durante la loro premiazione alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, alzarono un pugno nero per protestare contro il razzismo e l’ingiustizia negli Stati Uniti. La vicenda sarebbe stata in seguito ricordata come il “Black Power Salute”.
Lo stesso testo dell’inno ha suscitato in più occasioni le proteste della comunità afroamericana, che nel 2017 è giunta a chiederne al Congresso, attraverso la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), la rimozione da inno nazionale a causa dei numerosi riferimenti alla schiavitù, considerati offensivi e razzisti. Lo stesso Trump è inciampato sulle parole dell’inno nazionale nel corso di una manifestazione pubblica, in occasione della quale il Presidente è stato colto in fallo sulla conoscenza dell’inno di quella America che intende “make great again!”. La frase conclusiva dell’inno “And the star-spangled banner in triumph shall wave. O’er the land of the free and the home of the brave!” rievoca momenti della storia del Paese segnati dall’eroismo di uomini coraggiosi, tessendo la narrazione di una ritrovata libertà. È da quest’epico riferimento che prende le mosse questo breve commento alle vicende istituzionali che hanno riguardato gli Stati Uniti nell’ultimo quadrimestre. […]