La presidenza non convenzionale di Donald Trump ha riportato al centro del dibattito politico e accademico diversi temi caldi. Il più attraente per la dottrina appare essere quello dell’impeachment, che offre la possibilità di addentrarsi in diversi scenari, la maggior parte dei quali, tuttavia, privi di qualsiasi reale fondamento. Il merito è, comunque, quello di aver stimolato l’emersione di una discussione attorno ad alcuni profili tecnicogiuridici specifici. La dottrina che in passato si è occupata diffusamente dell’istituto dell’impeachment – dedicando particolare attenzione ai tre casi in cui si è proceduto alla sua attivazione da parte del Congresso ( nei confronti dei Presidenti Johnson, Nixon e Clinton) – ha adottato prevalentemente un approccio originalista, aderendo a quella che alcuni hanno definito la “visione hamiltoniana”, ossia un’interpretazione estensiva dell’istituto in base alla quale l’impeachment può essere utilizzato in risposta ad un’ampia gamma di “reati” politici.
Sebbene gli studiosi siano concordi nel ritenere che il Congresso non debba ricorrere all’istituto solo nei casi in cui vengano contestati al Presidente reati gravi o rilevanti violazioni della legge, i fautori di una posizione minoritaria hanno recentemente sostenuto che l’ascesa negli Stati Uniti di partiti politici organizzati e l’affermazione di una logica partitica-politica ha travolto la concezione originaria dei framers dando vita ad una situazione de facto in cui la posizione secondo cui l’ambito di applicazione dell’impeachment sia limitato alle cd. indictable offences non possa essere efficacemente screditata. Una presidenza nata, dunque, com’è stato più volte ricordato, tra le polemiche sulle possibili interferenze elettorali della Russia, e con l’impegno di rimettere l’America al primo posto nella politica interna e internazionale. Una presidenza che, ad un anno dall’Inauguration Day, sfiora un indice di popolarità tra i più bassi mai registrati nel primo anno di mandato presidenziale […]