Tre osservazioni ed una conclusione interrogativa
Stimolato dalle relazioni di Volpi e di Olivetti e dall’intervento di Pizzetti, mi concentrerò su tre punti e formulerò una conclusione interrogativa.
Il primo punto è dedicato ad un giudizio sulla recente revisione costituzionale francese. Mi sembra che si tratti di interventi importanti che però non rivoluzionano il quadro generale della forma di governo della V Repubblica. Sì tratta di un interessante ed importante maquillage di riequilibrio, che richiama in forma dinamica sia il discorso di Debré nell’estate del 1958 davanti al conseil d’Etat, sia quello pronunciato quest’anno da Fillon davanti all’Assemblea nazionale . Si tratta di un importante maquillage, la cui parte più rilevante- secondo me- è quella relativa ai contropoteri dell’opposizione e all’apertura alla giustizia costituzionale. Sono questi gli elementi carattererizzanti di un intervento che ha alla sua base l’esigenza di dare un senso all’azione ed una legittimazione alle assemblee parlamentari francesi, che vengono generalmente essere considerate non reattive. . E’ questa una condizione che unisce tutti gli ordinamenti considerati stabili di democrazia d’investitura con strutture di partito forti o con forme di compensazione di un’eventuale debolezza partitica sul piano della forma di governo. In determinate circostanze le forme di governo presidenziali( e tutti facciamo riferimento al Congresso degli Stati Uniti) possono possedere assemblee reattive, ma la letteratura internazionale sia di tipo politologico che costituzionalistico è concorde nel ritenere le forme di governo parlamentari di tipo monistico( razionalizzate o naturalistiche che siano) come caratterizzate da parlamenti deboli. In questa prospettiva sia la Francia della V Repubblica, sia la Gran Bretagna di Brown sono caratterizzate da parlamenti deboli.
Il secondo punto si concentra sul rinato problema di come classificare la forma di
governo francese. Per molti anni noi abbiamo riflettuto , ma questo sarà oggetto di analisi nel terzo punto, più sul circuito della rappresentanza e della sua importanza per la classificazione delle forme di governo, mentre adesso riscopriamo le istituzioni e il rapporto
soprattutto fra i poteri attivi( legislativo ed esecutivo) e i poteri, chiamiamoli così di controllo, in
particolare la giustizia costituzionale. Qui rinasce la disputa classificatoria tra quelli che considerano la forma di governo francese come una forma di governo a sé, denominata semipresidenzialismo o semiparlamentarismo, e chi la considera una variante della forma di governo parlamentare. E’ bene essere espliciti. Considero che la forma di governo francese della V Repubblica sia una forma di governo parlamentare razionalizzata, con una forte incidenza dei poteri dell’esecutivo ed elezione diretta del Capo dello Stato. Non solo. La forma di governo della V Repubblica non costituisce,come credono alcuni, il”modello”, ma una delle possibili varianti empiriche in cui la forma di governo parlamentare razionalizzata può concretizzarsi. Si tratta di una tesi che può essere criticata, ma si basa sull’esistenza di elementi tecnici incontrovertibili: rapporto fiduciario, controfirma ministeriale e scioglimento delle Assemblee parlamentari. Se vogliamo fare i costituzionalisti, a questo punto questi sono i tre elementi che si combinano poi con l’esistenza di un sistema dei partiti che può essere più o meno frammentato e con elementi di tipo di investitura.
Proviamo a contestualizzare il caso francese del 1958 sulla base dei dati tecnici. Debré parlava di equilibrio, ma bisogna vedere quale equilibrio aveva in mente: formalmente egli aveva in mente un equilibrio di tipo dualistico, contrastando il monismo a favore dell’Assemblea,ma in sostanza tendeva a stabilire un moderno monismo dell’Esecutivo. In proposito vi ricordo tutti i discorsi, anche quelli di Bayeux e di Epinal, di Charles De Gaulle negli anni ’40, ma anche il libro di Debré “Ces princes qui nous gouvernent”( 1957), che è importantissimo per comprendere poi la riforma costituzionale 1958. Quanto poi alle classificazioni di tipo duvergeriano che circolano in Italia, esse sono interessanti, ma sono basate appunto sulla indistinzione e la mancata valutazione degli elementi istituzionali, da un lato, e degli elementi di tipo politico del circuito rappresentativo dall’altro. Vi devo dire che quando mi parlate di Duverger e delle teorie di Ceccanti, a me viene in mente un saggio di Donato Donati degli anni ’30, che sosteneva che la forma di governo fascista assomigliava a quella presidenziale americana, cioè era una democrazia di investitura. E’ per questo che invito a contestualizzare da un lato, forma di stato, forma di governo, senza andare eccessivamente nell’impressivo.
E qui si arriva al terzo punto, relativo ad Elia ed al problema italiano. Ritengo che a Leopoldo oggi fischino le orecchie e me lo immagino sorridere in maniera impercettibile, con gli occhiali e gli occhi che brillano. Lo stiamo veramente tirando per la giacchetta. Attenzione però a non decontestualizzare il pensiero di Leopoldo Elia,che – secondo me- ha avuto vari periodi, in una coerenza sostanziale di ricerca e di impegno democratico, ma con variazioni nel corso dei suoi sessant’anni di attività scientifica. Sì è vero, Elia si è laureato con Vincenzo Gueli e-ricordo- che quest’ultimo era allievo di Luigi Rossi e di Sergio Panunzio. Ciò spiega la sua prima pulsione di seguire Costantino Mortati negli anni ’50 e di propendere per la teoria della Costituzione in senso materiale, rappresentata dal circuito dei partiti. Questo periodo dura sino alla fine degli anni Settanta ed è segnato dalla voce Governo (forme di) sull’Enciclopedia del diritto,che si pone all’inizio della grande transizione sistemica. Agli inizi degli anni ’80 ( penso alla sua relazione di Messina per il cinquantenario Giuffrè, nel periodo in cui è giudice costituzionale ) incomincia ad essere allarmato dalla crisi del sistema dei partiti e dalle stesse propensioni metodologiche realiste, di cui era uno dei più rilevanti esponenti. Poi con la crisi di regime del 1993-4, Elia ha una evoluzione che direi va dal 1994 al 2008. Si individua,insomma un secondo periodo di Leopoldo Elia, così come- si può dire – vi sia un secondo periodo della Costituzione italiana repubblicana. Il 1994- lo abbiamo ricordato assieme molte altre volte- ha significato il crollo delle forze che si erano poste alla base dell’ordinamento repubblicano, che avevano costruito la casa comune e che costituivano anche l’asse di riequilibrio. Sì, ci sarà stata la conventio ad excludendum da lui teorizzata nel 1969-70 come chiave di spiegazione (quella che Sartori chiamava partito antisistema e Ronchey ‘fattore K’), ma nella realtà quel circuito stabilizzava il sistema, mantenendo l’equilibrio e prospettandolo- con l’applicazione della Costituzione- verso l’integrazione sistemica . Quando nel 1994 scompare il circuito dei partiti, Elia, sulla base delle suggestioni secondo me non abbastanza ricordate di Dossetti a Monteveglio, si convince che, se non c’è più un fissaggio endogeno dell’ordinamento costituzionale, gli equilibri devono essere trovati dal punto di vista ideale all’esterno e dal punto di vista istituzionale anche al di fuori del circuito rappresentativo . Valerio Onida ricorda Dossetti facendo riferimento al discorso delle quattro libertà (relazioni ai Lincei e alla Facoltà di Scienze Politiche 2008); Elia chiude il cerchio basandosi sulla comune cultura costituzionalistica europea(relazione sui 60 anni della Corte costituzionale). Elia esternalizza , quindi, gli elementi su cui si fonda l’ordinamento repubblicano e poi si chiede se non vi sia, ed è questo il punto fondamentale delle riflessioni di giugno e di luglio 2008 nei convegni ristretti e poi quello pubblico di ASTRID, la necessità di un riequilibrio esterno al circuito della rappresentanza ,non più basato sulla costituzione materiale dei partiti, ma sulla costituzione vivente. Se volete, siamo di fronte ad un passaggio ideale tra Mortati ed Esposito, e cioè all’avvento determinante del ruolo della giustizia costituzionale e di altri elementi di riequilibrio. Sia chiaro, Elia,evidentemente, non aveva dimenticato i partiti, di cui voleva ricostruire le garanzie formali all’interno del circuito della rappresentanza politica (e, quindi, statuto dell’opposizione ma soprattutto regole interne per le candidature e per la costruzione del consenso all’interno delle formazioni politiche), ma si rendeva conto che in una società liquida e con partiti deboli i contropoteri dovevano essere ricercati in altro luogo .
Conclusioni. Ecco, da questa discussione Elia esce fuori come un classificatore negativo della Francia della V Repubblica, sicuramente tra il ’58 e il ’60, però sempre attento alla sua evoluzione (come dimostrano i suoi interventi ai Convegni di S. Pellegrino in materia). Bisogna stare attenti a fossilizzare l’interpretazione .Sono stato allievo di Galeotti a Pavia agli inizi degli anni Settanta ed ho studiato attentamente il suo volumetto su la “recessione del principio democratico nella Costituzione della V Repubblica francese”,ma so anche che poi lo stesso Galeotti ha mutato la sua impostazione negli anni ’60-’70. Molti di noi ci siamo ricreduti sulla capacità e la virtualità multipla della forma di governo francese e della Costituzione francese. Si tratta di una forma di governo ad “ ala variabile”, che assomiglia all’aereo britannico Harrier. Non soltanto ad ala variabile nel funzionamento, ma anche nel giudizio degli osservatori. In sostanza le istituzioni della V Repubblica vengono viste dai francesi con occhiali differenti a seconda delle epoche. Lo stesso si può dire per il giudizio che ne hanno dato , con occhiali differenti, i costituzionalisti italiani e la classe politica italiana nel tempo. Non ho la possibilità di approfondire l’argomento , lo faremo credo a gennaio nel convegno che sarà organizzato su questo tema presso la Camera dei deputati.
La conclusione secondo me è perché non pensare al riequilibrio in Italia ,facendo riferimento anche al modello francese e considerando sempre che le forme di governo, ma in generale gli strumenti istituzionali, sono strumenti elastici che debbono essere introdotti a seconda delle situazioni concrete, delle situazioni che nella realtà si presentano. A questo punto vi ricordo un discorso di Mosca del 1925-’26, l’ultimo discorso al Senato in relazione alla legge sul governo: si alzò e sostenne che sembrava strano ma lui si doveva alzare per difendere il Parlamento. Aveva sempre contrastato il Parlamento, fonte di trasformismo e di assemblearismo, ma nel momento in cui saltava l’equilibrio il costituzionalista andava verso la parte più debole ed è questo l’elemento per cui mi sembra che si possa riflettere anche sulla riforma francese con gli occhiali delle esigenze italiane.